Raven In Silence episode I - The Darkness Inside

Fanfiction ispirata a Silent Hill e Armored Core

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  1. Vintovka
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    Da un po' di tempo mi era tornata questa idea in mente. Poi si è aggiunta la voce di Jak_13 (o "Jackie", come mi piace leggere il suo nickname) che si ricorda ancora della fiction, mai terminata...

    ...tuttavia, dopo parecchio tempo, Raven In Silence episode I è giunto al termine da un bel po'.
    Quindi, per l'occasione, e per rimettere in pari tutti quanti, ripubblicherò ogni singolo capitolo DALL'INIZIO. Questa decisione è presa anche in seguito all'estensiva revisione che ha così alterato alcuni dettagli del racconto, per cui è doveroso tenere tutti aggiornati.

    Vi lascio dunque al prologo della storia. Ogni domanda è ben accetta.

    QUOTE
    Questo racconto è ispirato a due saghe differenti tra loro, Silent Hill e Armored Core. L’unica cosa che hanno in comune viene ad esistere nel momento in cui compare il protagonista della storia, un pilota di ACs con una forte esperienza in materia di esoterismo e affini, il quale viene messo di fronte a questa dimensione a lui sconosciuta. Starà al Raven riconoscere il potere della terribile città fantasma e contrattaccare, prima che sia troppo tardi.
    Dal momento che sono in due a dividere questa esperienza terrificante, l’episodio è scritto due volte: la prima, quella dal punto di vista del pilota, è narrata per intero, mentre la seconda, vista dalla parte di Alicia Claire Mylon, comprende solo i pezzi che spiegano le azioni della ragazza non viste nella prima scrittura, e soprattutto quei passaggi che possono spiegare, ad esempio, la sua comparsa nella storia.

     
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  2. Vintovka
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    CAPITOLO PRIMO
    UN MESSAGGIO COME INCIPIT



    Una semplice giornata d'autunno, anche se non sembrava tale. Il sole era ancora nel cielo, quasi nessuna nuvola ne oscurava la vista. In quel momento un ragazzo tornava a casa a tutta velocità con la sua bici lungo una strada non trafficata.
    Il ragazzo, di nome Arcadia Evander, era un brillante rappresentante del team d'elite dei Ravens, mercenari che pilotano Armored Cores, unità robotiche alte decine di metri e tanto potenti quanto grandi. Essendo un combattente molto abile, era stato spesso ingaggiato dal Global Cortex nelle più svariate missioni; ma mentre prima non aveva molto tempo, per via della scuola, ora invece si era trovato in un periodo nel quale di tempo ne aveva. Infatti era accaduto che nei pressi della zona dove si trovava il liceo che egli frequentava qualcuno aveva fatto esplodere una bomba, allertando il comune e rendendo inagibile la strada che portava all'edificio. Quella mattina aveva solo passato il tempo ad eseguire semplici manovre di manutenzione e altre cose di piccolo conto... nessuna grande battaglia alle quali - sembrava - era abituato. Ma d'altra parte era un periodo di relativa tranquillità, e non gli dispiaceva affatto. Sembrava tutto a posto, una giornata migliore di quella non poteva esserci. Aveva pure fatto un sogno, recentemente, un sogno parecchio strano ma parecchio piacevole per alcuni aspetti; purtroppo, più cercava di ricordarselo e meno dettagli riusciva ad afferrare. Ne concluse che evidentemente i sogni belli sono difficili da ricordare, e lasciò perdere.
    Quando arrivò a casa, corse a parcheggiare la bici, e altrettanto di corse salì al suo appartamento. La porta era chiusa, perciò bussò.
    "Hey, sono arrivato!" disse Arcadia ad alta voce, pensando che qualcuno sarebbe venuto ad aprire. Ma nessuno venne.
    "Uff... non saranno andati via tutti??" si chiese, e allora tirò fuori le chiavi... ma la porta non si apriva. Provò a girare le chiavi di nuovo ma ancora nessuna risposta.
    "Non avrò mica sbagliato chiave?" si chiese, mentre si voltava e controllava le chiavi, poi prese quella giusta e torno a dirigere la sua attenzione alla porta... che d'improvviso era stata sbarrata. Assi di legno, catene pesanti, lucchetti, tutto comparso dal nulla: la sua porta era sigillata, come se qualcuno vi si fosse barricato.
    "Ma che...???" esclamò. Poi guardò con più attenzione e vide qualcosa appeso, un foglio di carta bianco, su cui apparvero alcune parole. Arcadia si mise a leggere:
    <<raggiungi la scuola, sta succedendo qualcosa. Ti prego di venire.>>
    Arcadia rimase stupito. Poi si domandò: "Chi mai potrebbe averlo scritto? Ma soprattutto... perché dovrei andare? Cos'è che sta succedendo?" All'improvviso, come se la porta avesse udito la sua domanda, il messaggio si cancellò sotto i suoi occhi increduli e lascio posto ad un altro, più marcato:
    <<non fare domande e vieni! Non avrei chiesto che tu venissi se sapessi cosa sta succedendo!>>
    Arcadia rimase ancora più stupito. Poi apparve un ultimo messaggio:
    <<su, muoviti. La strada la conosci. Farai meglio a vedere con i tuoi occhi.>>
    Arcadia riuscì appena a finire in tempo di leggere, che il foglio si bruciò davanti ai suoi occhi. Pochi secondi, ed era già cenere.
    "Impossibile." pensò Arcadia. “Dev'essere un'allucinazione.” Tuttavia, decise di scendere giù e di dirigersi verso la scuola. Ormai la sua curiosità era stata destata a sufficienza.
    Quando fu uscito dall'appartamento e ebbe messo piede nel cortile del condominio, Arcadia guardò attorno a sé, e la bella giornata di sole non c'era più. Ora il cielo era coperto di nuvole, e sembrava un pomeriggio d'autunno vero e proprio, solo un po' più cupo.
    "Meglio prendere la bici... non si sa mai. Meglio non perdere tempo, voglio finire questa storia in fretta." si disse, ma come guardò verso la bici, vide qualcosa di strano.
    Qualcosa stava cercando di portarsi via la bici. O almeno, questo era quello che gli sembrava. Ma guardando bene, quel "qualcosa" non stava cercando di rubarla. Piuttosto sembrava che stesse cercando di farla a pezzi.
    "Ehi tu! Cosa diavolo stai facendo con la mia... oddio!" terminò Arcadia. Quel qualcosa non era un essere umano. La bestia si voltò, e lo guardò con i suoi quattro occhi. Poi si mise a quattro zampe, sfoderando degli artigli lunghissimi. Poi, si mise ad abbaiare con... una bocca a due aperture. (NDS: Questi sono gli Hanter.)
    "I casi sono due: o questo è uno scherzo, o quella bestia vuole uccidermi! In ogni caso... via!" esclamò, indietreggiando verso il cortile dove stavano le auto. Si fermò, e un attimo dopo prese una manciata di sassi.
    "Stai indietro!" urlò Arcadia. Per tutta risposta, la bestia cominciò a corrergli incontro, inferocita. Al che Arcadia decise di contrattaccare, e tirò uno dei sassi che aveva preso.
    La pietra prese la bestia in testa. La bestia si fermò, perché era stata presa su uno degli occhi. Ma Arcadia non aspettò che si rimettesse in sesto e, preso un tubo lì vicino, le assestò una mazzata sul cranio. Il colpo dovette essere molto forte, perché la bestia emise un urlo di dolore, per poi accasciarsi al suolo.
    Arcadia rimase a fissarlo... poi si disse: "Ok, non è uno scherzo, né io sono pazzo. Anche se avrei preferito che non fosse tutto vero."
    Con la bici rovinata, Arcadia non poteva andare da nessuna parte. Decise quindi di ricorrere al suo AC "portatile". Come può un AC essere portatile? In quel periodo era stato inventato un dispositivo della stessa forma di un orologio da polso che permetteva a ogni Raven di avere con sé una versione di grandezza umana della propria unità AC da portare come se fosse un'armatura integrale, con potenziale proporzionato ma comunque sufficiente per il combattimento su larga scala. Abbastanza palesemente, all'attivazione del comando, ad Arcadia si sostituì sua unità personale, chiamata Danger Halley. Qualche secondo dopo, terminata l'operazione, decise di correre verso l'esterno, quindi si decise ad azionare i propulsori del mezzo. Però nulla accadde.
    "E ora che altro c'è?" esclamò, poi vide che la riserva di energia era vuota. "Ma come...? Che sta succedendo? Com'è possibile tutto questo?"
    Era rimasto decisamente stupito. "Io non capisco... si può sapere che succede?" si chiese, ma non ebbe molto tempo per pensare, perché altri due Hanter si avvicinavano, evidentemente intenzionate ad attaccare. E Arcadia si accorse ben presto che era rimasto senza armi. Nemmeno quelle del suo AC c'erano, come se qualcuno avesse rubato tutte le armi equipaggiate sul suo mech.
    "Porcamiseria. Mi rimane solo una spada laser LB2. Sperando che funzioni..." si disse, poi si lanciò contro le due bestie, che fecero altrettanto.
    Arcadia riuscì appena in tempo a schivare l'attacco di uno dei due mostri per contrattaccare: il colpo prese il mostro sul fianco, lasciando una scia di sangue a terra. Arcadia però non si accorse dell'altro mostro, che lo prese di spalle e gli lanciò un fendente alla spalla.
    "Dannazione, con solo questa spada laser non gli faccio niente!" ma non era esattamente così: il mostro colpito dalla LB2 zoppicava, mentre l'altro si era distratto a leccare il sangue colato a terra.
    Arcadia guardò alla sua bici. "Oh beh, peggio di così non può andare." Corse quindi verso la sua bici, e la prese. Pesava abbastanza, ma per un AC di statura umana non era poi un problema. Quindi, la scagliò contro i due mostri, che se ne accorsero tardi. Quello ferito riuscì a scampare appena in tempo, ma l'altro rimase schiacciato. Arcadia ne approfittò per prendere il mostro ferito di sorpresa, e gli scagliò un fendente che lo fece volare addosso a un auto. Il mostro cadde a terra morto, lasciando macchie di sangue attorno, ma l'auto cominciò ad ululare l'antifurto.
    "Oh, vai al diavolo! Tanto sembra non ci sia nessuno." disse Arcadia, poi si diresse all'esterno, sperando di non dover incontrare altri mostri. Provò a disattivare il suo AC-mode, ma stranamente l'orologio era bloccato.
    "Anche questa! Sono bloccato nel mio AC... ma vai al diavolo!" esclamò, visibilmente irritato. "Prima la porta chiusa, poi i mostri che mi scassano la bici, poi pure questo! Cos'altro mi aspetta?"
    Qualche minuto dopo, Arcadia correva a più non posso per la strada che sembrava essere deserta. Tutte le porte erano chiuse, e molte erano sbarrate dall'esterno. Le finestre, chiuse anch'esse. Qualche macchina aveva i vetri rotti. Arcadia non si sentiva a suo agio rinchiuso nel suo AC: senza armi ed energia per i boosters, era ugualmente incapacitato a reagire ad eventuali pericoli. E se lo aspettavano altri mostri più avanti, non avrebbe potuto farli fuori solamente con una spada laser e tanta fortuna.
    Le vie laterali erano sbarrate da ostacoli, su alcuni muri c'erano scritte frasi strane, incomprensibili per via delle macchie di sangue.
    "Ma che diamine succede? Poco fa era tutto apposto, e ora sembra di essere in un viaggio nel tempo... non c'è nessuno qua in giro.”
    Arcadia raggiunse via San Donà, anch'essa deserta. Una nebbia cominciava a offuscare la vista.
    "Ah, magnifico... pure la nebbia." esclamò. Poi si diresse per attraversare la strada... quando un rumore di finestre che si rompono lo colse: da una finestra di un edificio dietro di lui, un corpo veniva gettato sul marciapiede. Il corpo emise un tonfo, e lasciò macchie di sangue. Non c'era dubbio che si trattasse di un morto. L'identità però era impossibile da determinare: mancava la testa.
    “Yuck, ora volano cadaveri decapitati. Stupendo!” si disse, sarcastico e disgustato al tempo stesso. Decise di far finta di niente, e di attraversare. Corse via per evitare che, improbabile ma comunque possibile, un'auto potesse passare e investirlo.
    Un quarto d'ora dopo correva ancora, attraversando il parco Bissuola. Le nuvole si erano fatte scure, la nebbia ancora incombeva, e il parco a quell'ora, o sarebbe meglio dire “con quell'aspetto”, non era certo rassicurante. Ma Arcadia voleva raggiungere la scuola. Dopotutto, tutto quel casino era cominciato dopo che avesse letto i messaggi sulla porta di casa. Ora voleva vederci chiaro.
    Dieci minuti dopo, stanco per via della lunga corsa, arrivò al sito dell'esplosione della bomba, con un passo più lento per riprendere fiato. Lì vicino, c'erano auto ribaltate, asfalto a pezzi e, qualche decina di metri più in là, la scuola dove andava a studiare.
    “Sembra proprio un altro posto. Cos'è successo qui? E' anche peggio di quanto mi aspettassi...”
    Arcadia si diresse velocemente verso il cancello della scuola, chiuso anch'esso a chiave, e stava per scavalcarlo, quando un altro Hanter si avvicinò a lui, correndogli incontro.
    "Oh dannazione, ecco che ne arriva un altro!" esclamò, ma stranamente l'Hanter si fermo a mezza strada e si accasciò al suolo. Qualcuno doveva aver sparato in testa al mostro, perché era morto sul colpo e aveva un buco all'altezza degli occhi. Arcadia non tardò molto a capire che quel qualcuno era all'interno dell'edificio: aveva notato con la coda dell'occhio che qualcuno aveva chiuso in fretta una delle finestre. Poi scavalcò il cancello e andò verso la porta.
    "Un altro messaggio!" notò, vedendo un foglio attaccato a delle robuste catene che sigillavano l'entrata. “Cosa diamine ci troverò ora...?”
    <<non avrei dovuto portarti qui. Ora mi hanno trovato. Non so per quanto resisterò, ma torna indietro...>>
    Arcadia non finì di leggere il messaggio, e impulsivamente ruppe il vetro della porta, saltando all'interno e mormorando un "Ormai sono qui, e andrò fino in fondo!" mentre accedeva all'atrio della scuola. Poi si girò verso le catene dov'era affisso il messaggio, e si disse: "A maggior ragione se poi è nei guai... perché dovrei andarmene?"
    Arcadia si guardò intorno. Tutte le porte erano chiuse, e le scalinate grandi erano serrate da un cancello arrugginito ma resistente. Decise quindi di passare per le scale vicino al bar. Passando vicino all'ascensore, notò che era fermo al secondo piano. Premette l'interruttore, ma niente.
    "Evviva." commentò sarcasticamente. “Dovrò farmela tutta a piedi. Poi si voltò verso la porta dell'ufficio di presidenza... e gli venne d'urlare, anche se non lo fece: una figura umana, anche se sfigurata, penzolava dal soffitto del corridoio che portava all'ufficio, con la porta di quest'ultimo sbarrata e macchiata copiosamente di sangue e catrame. Ce n'era pure sul cadavere.
    "YIKES! E questo che significa?" si domandò. Era come se qualcuno stesse dando vita a un massacro in tutta la zona cittadina, ma capire chi potesse esserne responsabile sembrava un'impresa. Esaminò il posto, cercando di avere qualche indizi, ma non trovò neanche la più minima traccia.
    "Pazzesco." si disse Arcadia. Decise di esplorare il bar, visto che era lì vicino. Ma arrivato sulla soglia si accorse subito che non era cosa fattibile, dato che il pavimento antistante al bar, una porzione non indifferente, e completamente sprofondato, creando una fossa molto profonda, tale che Arcadia non ne vedeva neanche il fondo.
    "Questo non mi piace. Ho un pessimo presentimento." si disse, quindi decise che l'unica cosa da fare era salire di sopra per continuare la sua esplorazione. “Questo non sembra l'operato di chi piazza bombe per strada. Qua c'è qualcosa di più, qualcosa di molto peggio... ma sembra tutto così irreale!”
    Arrivato davanti al primo piano diede un'occhiata in giro, ma si accorse che era tutto chiuso da cancelli uguali a quelli trovati nell'atrio. Perciò salì al secondo, sperando di trovarci qualcosa di più che strade sbarrate e pavimenti mancanti.
    "Buffo." commentò non appena finì di salire le scale. "Nebbia pure qui. E questo corridoio mi ricorda qualcosa... ma non so cosa!" disse tra sé e sé. Quel presentimento lo faceva pensare, ma era come se la nebbia si fosse annidata anche nella sua testa, perché più pensava e meno ricordava. Si girò verso la parte dove stava una finestra, dove termina il corridoio sul lato destro. Era buio pesto. Si girò a sinistra, allora, e proseguì.
    Fatti pochi passi, sentì l'aria farsi pesante. Come se la nebbia si stesse facendo più densa. E sentiva freddo.
    "Che diamine succede? Hanno dimenticato il riscaldamento?" si chiese Arcadia. Decise di proseguire, ma dopo un po' sentì una voce fredda.
    "Gotcha!"
    E uno sparo.
    A giudicare dal rumore, gli parve un fucile da cecchino. Subito dopo si sentì colpito alla schiena. Il dolore cominciò ad attraversarlo, e non riuscì a gridare perché sentiva pure stanchezza. Un narcotico? Riuscì a udire un rumore, qualcuno che stava spezzando a metà la canna di un fucile. Lo stesso fucile col quale era stato colpito?
    Arcadia crollò al suolo. Mentre la stanchezza lo invadeva, sentì delle sirene in lontananza. Sirene così si sentono solo quando succedono dei casini nella zona industriale della città. Forse poteva spiegare l'aria strana che si respirava nei dintorni. Tuttavia, quelle sirene avevano qualcosa di strano, di... inusuale. Da dove provenivano allora? Questo non riuscì ad indovinarlo, perché le forze lo abbandonarono, e non vide più nulla.
     
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  3. Vintovka
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    CAPITOLO SECONDO
    CHI NON MUORE SI RIVEDE



    La prima cosa che Arcadia notò dopo aver riaperto gli occhi era che era lungo disteso su un pavimento sporco. Poi notò che era buio, a parte qualche debole luce. Infine, si ricordò dello sparo, e delle sirene. Ma quando guardò sul pavimento, si accorse che stava disteso su una grata... e a giudicare da com'era ridotta doveva essere molto vecchia.
    Si alzò e si guardò intorno.
    "Meno male che ho montato le luci per gli ambienti bui." si disse, accendendo due fari all'altezza dei fianchi. Subito vide chiaro l'ambiente... e sobbalzò.
    “Cosa... cos'è successo?” fu la sua prima reazione, un misto di sorpresa e preoccupazione.
    Si accorse di essere finito in un altro posto. Il pavimento era fatto di grate più o meno insanguinate. I muri erano scrostati in parte, rovinati e macchiati. Dei candelabri dall'aria abbandonata illuminavano pigramente il corridoio con i loro mozziconi di candele provati dall'uso ma ancora funzionanti. In quanto al soffitto, era ricoperto di punte sporche di sangue e per niente messo bene.
    "Che è successo a questo posto?" si disse Arcadia. Aveva intuito che quella doveva essere la scuola... ma i casi erano due: o aveva dormito per una decina di anni, oppure doveva essere successo qualcosa. Notò, tra le altre cose, che la porta della classe 2D era stata scardinata e buttata all'interno dell'aula. Altro particolare fuori posto, una pistola giaceva su di essa. Riconobbe il modello istintivamente: “Una 9 millimetri, modello M9.” Arcadia si avvicinò, avendo cura di non inciampare per via dello spavento che lo faceva tremare leggermente, e si diresse a raccogliere la pistola. Poi sentì uno strano rumore.
    "Che diavolo...?" esclamò. Sembrava che qualcuno stesse rigando una macchina, ma non poteva essere il caso dato che è assai improbabile trovare un'automobile all'interno di una scuola. Corse fuori dall'aula, guardò verso la parte del corridoio dov'era il bagno, e cercò di capire meglio di cosa si trattasse.
    Qualcosa stava... roteando su sé stessa. Qualcosa con un'altezza di un metro e circa venti centimetri, diametro abbastanza largo e... 2 paia di armi affilate e gigantesche. Arcadia non tardò molto ad accorgersi che si trattava di una trottola. Sarebbe sembrata anche un giocattolo normale, se non fosse che era enorme, era dotata di lame mortali, e sembrava quasi che stesse rigando il muro intenzionalmente. Notò anche che parte del pavimento era ancora in pietra, altrimenti la punta della trottola si sarebbe incastrata nella grata.
    Arcadia non ci pensò due volte. Istintivamente puntò la pistola contro quella cosa, e fece fuoco, uno, due, tre, più volte. Continuò a sparare per tenerla lontana. Purtroppo non sortì l'effetto sperato, e anzi la trottola prese la rincorsa, e si gettò verso di lui con quello che sembrava a tutti gli effetti un salto. Arcadia fece in tempo a schivarla, e la cosa capitombolò dall'altra parte, andando ad incastrarsi nella grata. Roteò a vuoto ancora qualche volta, poi si fermò, emettendo un gorgoglio di disappunto.
    “Questo... questo è anche troppo. Io me ne vado di qui!” disse, visibilmente incredulo. Era impazzito, o quella cosa aveva davvero tentato di ucciderlo? Non stette a rifletterci molto, e andò subito alla ricerca delle scale. Arcadia pensò di scendere al piano di sotto, e così fece. Le scale erano messe male, ma resistevano ancora. Poi provò a vedere fuori alla finestra, ma questa era sbarrata. Non riusciva a vedere cosa stesse succedendo fuori. Guardò le porte delle aule: sbarrate anch'esse.
    "Dannazione, sono intrappolato. E' tutto chiuso a chiave! E di certo ci saranno altre di quelle cose mostruose. E ora cosa faccio?" si chiese, quando sentì un urlo. Qualcuno che chiedeva aiuto. Non c'era dubbio che si trattasse di una voce di ragazza. Ma da dove provenisse, non lo sapeva.
    “Diamine, forse è la stessa persona che ha...” esitò, non essendo sicuro di ciò che stava per dire. “...scritto quei biglietti.” terminò, per nulla convinto di quanto aveva appena detto. Ciò nonostante, decise di cercare la fonte delle grida, e tornò di sopra, per andare a vedere nell'atrio centrale (se era accessibile). Corse fino in fondo, ma non poté accedervi, in quanto era sbarrato da un altro cancello. Aveva sentito che la voce si avvicinava, e ne concluse che doveva essere al di là del cancello.
    "Ehi! Mi senti?" urlò Arcadia, poi diede una rapida occhiata e vide che il cancello era chiuso forte da un lucchetto molto robusto. Non pensò nemmeno a spaccarlo con la forza: era incastonato in modo tale da evitare la forzatura. “Resisti, cerco di tirarti fuori!”
    "Aspetta! Chi sei?" rispose la ragazza, ma Arcadia era già corso via. Cominciò a cercare in ogni aula e stanza, col solo risultato che molte porte erano chiuse. Poi si diresse verso l'aula della 3D, ed entrò. Al centro dell'aula c'era un buco enorme. Arcadia si avvicinò, cercando di vedere cosa ci fosse sotto.
    "Questo buco probabilmente porta di sotto... ma perché non si vede niente?" disse. Stava osservando un modo per scendere in sicurezza, quando all'improvviso qualcosa entrò nella stanza. Fece appena in tempo a girarsi, che il mostro lo colpì con una delle sue grandi braccia dritto sul viso, gettandolo nel buco.
    Arcadia atterrò pesantemente al piano di sotto, dritto su un banco che si trovava in mezzo alla stanza. Tutti gli altri erano stati spostati ai bordi. Arcadia scese dal banco e vide che esso recava una scritta:
    <<10 lunghi anni, hai detto? Ammirevole...>>
    Quella scritta accese un campanello nella sua mente. Arcadia cercò di ricordarsi, ma la sua attenzione venne catturata dalla lavagna, in cui caratteri sbiaditi formavano la frase:
    <<...na sett...... ....za di te..... ....sembra di mo.....! Ti a...... ......cia!>>
    Quel messaggio era firmato col suo nome. Arcadia cominciò a sentirsi male. Sentiva di essere nervoso: quel messaggio sbiadito per lui era chiarissimo. Si voltò verso la porta e, sapendo che era sbarrata, la sfondò senza troppi indugi, colpendola ripetutamente con la spada laser.
    Uscito all'esterno, sentì un rumore. Lì vicino era stata abbandonata un radio portatile. Un altro messaggio diceva:
    <<tienila con te. Ti servirà.>>
    Arcadia prese la radio portatile, che stava generando statico, guardandola dubbioso. Notò anche che c'era un'asse di legno lì vicino, con un'estremità piena di chiodi con le punte sporgenti. Nel momento in cui si chiese chi aveva lasciato quegli oggetti lì vicino, e perché l'avrebbe fatto, si voltò istintivamente verso le scale. Sentiva chiaramente che qualcosa stava scendendo.
    “Eccolo, il bastardo.” Arcadia non aveva dubbi: era il mostro che l'aveva buttato giù. Glielo fecero capire le lunghe braccia che l'avevano colpito, e poi due gambe lunghe e sottili. Una testa viscida con una faccia composta di due labbra. Non ricordava – e forse non voleva ricordare – dove, ma era più che certo che quel mostro, lui, l'aveva già visto.
    Attaccò la radiolina vicino alla cintura dove stavano le torce, e impugnò l'asse, aspettando il colpo del mostro, che non si fece assolutamente attendere: la bestia sferrò una mazzata con il braccio destro, che Arcadia cercò di parare, ma nel recuperare l'arma essa si spezzò, e buona parte dell'estremità chiodata dell'asse rimase impigliata sul braccio del mostro. Quindi ne approfittò del diversivo, e mirando alla testa cercò di colpirlo con la spada laser saltandogli addosso. Non fu una buona mossa: con l'altro braccio il mostro lo scaraventò contro il muro.
    Arcadia era adesso in trappola, e il mostro gli stava venendo addosso. In un attimo riprovò a infilzarlo, stavolta usando la spada laser come un pugnale, e stavolta ebbe successo. Lo prese alla gola, cercando con l'altra mano di fermare il braccio sinistro del mostro, che si stava avventando con la punta insanguinata su di lui. La bestia emise un gemito, però Arcadia non stesse a guardare e, deviato l'enorme arto della creatura, tirò fuori la pistola con la mano libera e gli sparò in faccia senza esitare. Non era assolutamente il posto nel quale avrebbe voluto morire... anzi, non voleva morire affatto. Ad ogni modo, il contrattacco funzionò, e il mostro cadde a terra, finalmente, vinto.
    Il dolore dell'urto contro il muro non era indifferente per via della forza di quella creatura, e Arcadia aveva pure riportato una ferita alla gamba sinistra, ma "Tutto sommato" si disse "poteva andare peggio."
    Si girò a guardare all'interno della classe, che recava 3B, e vide qualcosa a cui non aveva fatto caso prima: sulla cattedra c'era una chiave.
    “Può essere questa la chiave del cancello di sopra?” si domandò. La prese subito e corse al piano di sopra, per tentare di aprirlo. Per sua soddisfazione, l'ostacolo non oppose resistenza, e Arcadia poté così accedere all'atrio.
    Il posto era già più illuminato, ma questo non fece altro che rivelare che la cattedra dell'atrio era appesa al soffitto come se ci fosse stata incollata sopra. E con orrore di Arcadia, una macchia di sangue proveniva dai bordi del ripiano, come se qualcosa ci fosse stato spiaccicato in mezzo. Però l'attenzione del ragazzo venne richiamata da una figura legata al muro da delle catene e da una lama molto pesante ai suoi piedi.
    Arcadia si accorse che le torce erano spente, e così le accese. Ma un attimo dopo avrebbe preferito non averlo fatto. La ragazza incatenata era una che lui conosceva, e che ora voleva dimenticare.
    "Arcadia!" urlò lei!
    "Alicia..." disse lui, visibilmente atterrito. "Tu... che ci fai qui?"
    "Arcadia, non stare lì impalato e aiutami!"
    Arcadia per un momento non si mosse. Sentì che dentro di lui qualcosa si era bloccato. E non era lo stomaco, né tantomeno i meccanismi dell'AC.
    Arcadia la guardava, si sentiva paralizzato, il sangue gelato nelle vene. La guardava, e non riusciva a fare nulla: i suoi occhi verdi-nocciola, i suoi capelli, il viso e il corpo provati da quella che sembrava una lotta contro qualcuno (o qualcosa) che l'aveva inchiodata al muro. Il viso aveva un livido all'altezza della guancia, mentre le braccia sporgenti da una maglietta bianca a maniche corte mostravano segni di colluttazione; la maglietta, poi, era sporca di sangue. I jeans erano abbastanza sporchi, a causa del fatto che la ragazza era rimasta sempre nello stesso punto. Le catene avevano lasciato dei lividi sui polsi e sulle caviglie di Alicia, mente i suoi occhi cominciavano ad arrossarsi. Una piccola escoriazione era sulle labbra, il che stava ad indicare che dovette aver lottato quanto più strenuamente poteva prima di soccombere ed essere incatenata. Quella vista lo fece sentire male.
    Alicia non era più alta di Arcadia, ma quasi lo raggiungeva. Neanche Arcadia non è che fosse tanto alto, ma in compenso era ben proporzionato e aveva buoni riflessi. Lei invece non spiccava né in bellezza né nell'opposto: aveva un aspetto carino, ma Arcadia ricordava di lei soprattutto la dolcezza con cui erano stati amici. 10 lunghi anni fianco a fianco, compagni inseparabili. Mentre Arcadia fissava la povera ragazza che lo guardava implorandolo con lo sguardo, egli era già perso nei ricordi.
    La prima volta che si incontrarono fu alle elementari. Lui a quei tempi era disorientato, ed erano ancora bambini. Poi man mano Arcadia e Alicia strinsero quel rapporto di amicizia che li rese molto vicini per tutto quel tempo. Ma lei non immaginava cosa stava nascendo in lui. Intanto che il tempo passava, lei ai suoi occhi diventava sempre più bella, e lui stava a guardare. Il suo amore era tanto grande quanto la paura, difficilmente egli trovò il coraggio di parlarne con lei. E così, la prima volta che le parlò dei suoi sentimenti, fu molto tempo dopo, ed essendo in due scuole medie differenti lei ormai aveva trovato qualcun altro. Era arrivato tardi. Qualche volta si incontravano ancora, e capitarono anche nello stesso liceo. L'inseparabile coppia, o almeno così sembrava. Molti, guardando con gli occhi di un osservatore, avrebbe giurato che Arcadia e Alicia sarebbero diventati molto più che amici.
    Ma non sarebbe andata così. Un litigio, un'incomprensione, dovuta a una mossa sbagliata di Arcadia, che tra le altre cose non aveva fatto i conti col tempo. Perché il carattere di Alicia era diventato diverso, un po' come una normale ragazza adolescente. Ma lui non aveva dimenticato tutto quel tempo, e sulle sue emozioni era rimasto saldo come una roccia... purtroppo, era rimasto saldo anche sull'idea che aveva della ragazza, a tal punto da arrivare ad avere ricordi di cose mai accaduti, di baci mai dati. E per questo, quel giorno la roccia si frantumò: Alicia decise che era arrivato il tempo che le strade si dividessero, di fronte ad un Arcadia letteralmente annientato. Lui fece di tutto per scongiurarlo, ma ormai la separazione era avvenuta.
    E lì cominciò il periodo più nero. Col tempo si sentì diviso in due: da una parte teneva troppo a lei, ma dall'altra la odiava. E il dualismo che sentiva dentro di lui andò crescendo. Tutti i sogni in cui credeva erano andati in frantumi, e ora erano rimasti solo gli incubi a tormentarlo.
    Infine la svolta: un giorno, seppe che il Global Cortex reclutava nuovi piloti, o altrimenti detti Ravens. E non perse tempo: diventò in breve tempo una delle personalità più brillanti dell'organizzazione. Questo significò anche un allontanamento dalla ragazza, che tuttavia non gli pesò troppo. Dopotutto, secondo lui, lei non aveva tutta questa voglia di recuperare la loro amicizia. Arcadia pensò, forse a ragione o forse a torto, che Alicia lo avesse abbandonato di nuovo. Purtroppo, come spesso accade, la realtà era diversa, in quanto lei non sapeva come spiegargli cosa pensasse veramente, e ogni occasione che aveva non riusciva a sfruttarla. Alicia sembrava avere paura di parlargli, e lui non era molto di aiuto in tutto questo, sebbene gli fosse impossibile ragionare in modo molto razionale.
    Ed ora, in quel posto infernale, erano di nuovo faccia a faccia. Lui, sconvolto, arrabbiato e impietosito al tempo stesso, mentre lei lo implorava con lo sguardo. Ora lei ad aver bisogno di lui.
    Arcadia sentiva nascere un forte odio dentro di sè. Voleva lasciarla lì. Dopotutto, cosa doveva importargli? Ma facendo così, comportandosi in modo egoista, cosa avrebbe risolto? Non sentiva forse anche una parte di lui che lo spingeva a rompere le catene?
    Prese una spada pesante ai suoi piedi, e cominciò a colpire con forza le catene. Una dopo l'altra, cadevano a terra, spezzate. Alicia lo guardava, spaventata.
    Spezzata l'ultima delle catene che incatenavano la ragazza al muro, Alicia si rialzò, poi puntò gli occhi addosso ad Arcadia. Provò a dire "Grazie.", ma la voce le morì in bocca.
    Arcadia non aveva voglia di guardarla in faccia, e tenne il viso basso.
    "Arcadia...?" disse lei. Lui non si voltò. Era assorto nei pensieri. "Arcadia, tutto bene?"
    "Penso di sì..." rispose lui, a voce bassa.
    "Sei sicuro?" gli domandò lei.
    Arcadia si voltò, fissandola in viso. "Ti interessa, forse?"
    "Sì che mi interessa! Se non vedi, siamo tutti e due nella stessa situazione."
    "Credi che basti a dimenticare il male che mi hai causato?"
    "Credimi, non..."
    "Ah basta con questi <<non volevo>>.” Fece una smorfia di scherno. “Tanto lo so, sono tutte balle."
    "Ma se forse mi stai a sentire..."
    "ALMENO STAI ZITTA!" le urlò esasperato. "Quante volte ti ho ascoltato? Direi praticamente sempre! E questi sono i risultati!"
    "Ma ora è diverso, siamo..."
    "MA CHI SE NE FREGA! NON SIGNIFICA CHE MI SIA GIA' SCORDATO COME MI HAI FATTO SENTIRE! CERTE COSE NON SI DIMENTICANO!"
    Alicia ammutolì. Arcadia invece aveva perso la pazienza, e infierì nel discorso.
    "Dov'eri quando io stavo da schifo? Dov'eri quando TU mi hai annientato con la tua stupida decisione? DOV'ERI QUANDO ERO IO AD AVER BISOGNO DI TE?"
    "Non era mia intenzione farti del male!" rispose Alicia, e da quel che Arcadia poté vedere sembrava sull'orlo delle lacrime. Ma in quel momento era talmente infuriato che non se ne curò per niente, mentre lei rispondeva alzando la voce, ma solo per paura. "Cerca di capirmi, come facevo a darti una risposta subito? Come facevo a sapere che non saresti impazzito di nuovo dietro a me?"
    "Insomma, anche se non possiamo stare insieme, questo non significa che non potevamo essere amici!"
    "E cosa avrei dovuto fare se ti...?"
    "Stammi bene a sentire, a me bastava anche poterti stare vicino come semplice amico! Credi forse che io non sappia controllarmi?"
    "Ma..."
    "EVIDENTEMENTE NO! E HAI DECISO DI FARMI SOFFRIRE ANCORA DI PIU'! E ASPETTI PURE CHE TI PERDONO! ABBI LA DIGNITA' ALMENO DI ANDARE A QUEL PAESE!" Alicia non poté trattenersi.
    “BASTA, TI PREGO! BASTA!” e prima che egli potesse aggiungere qualcosa, scoppiò a piangere. Per quanto Arcadia fosse arrabbiato, il sangue gli si gelò di nuovo, poi si voltò. Sì, aveva esagerato parecchio questa volta.
    "Maledetta la mia boccaccia, perché non mi sono stato zitto?" si disse. Poi si voltò verso Alicia, che cercava senza riuscirci di coprirsi la faccia, con due occhi rossi e gonfi di lacrime.
    "Adesso vattene.” le disse infine. “Ci saranno altri mostri, e tu qua sei la messa peggio."
    "Aspetta!" urlò lei, ancora piangente. “Perché non mi vuoi ascoltare?”
    "Che c'è ancora? Vuoi forse dirmi che sono stato un incivile ad urlarti addosso e ad averti mandato al diavolo? Beh, fallo. Non servirà a niente."
    "Per favore, piantala.” rispose lei, imbronciata e con le lacrime ancora in volto. “Piuttosto, come pensi tu di fare a sopravvivere qui?"
    "So cavarmela da solo. Pensa ad andartene da qui, e smettila di preoccuparti per me."
    "Dai, ti prego, non restare!"
    "Alicia, per favore, ti ho detto di smetterla. So badare a me stesso, posso ancora combattere."
    "Ma per favore! Piantala di fare l'eroe!"
    "E anche se fosse?"
    Restarono a guardarsi. Alicia aveva finalmente smesso di piangere.
    "Meno male che hai smesso di piangere." disse Arcadia. "Non ti si addicono per niente gli occhi rossi di una che soffre."
    "Sei sempre il solito, Arcadia." disse lei, abbozzando un sorriso. Lui però non ricambiò. “Ti costa tanto un minimo di amor proprio?”
    Arcadia non rispose. Si morse le labbra, poi le disse: "Dai, vai. Ora devi solo uscire da qui.”
    “Sei sicuro che non vuoi...?”
    “Sono sicuro. Posso farcela. Tu pensa ad uscire, io troverò un'altra strada.”
    Arcadia restò girato. Una lacrima cominciò a scendere dai suoi occhi, e probabilmente era questo il motivo per cui non voleva vedere Alicia in faccia.
    "Ci vediamo fuori." disse infine. "Sperando che questo casino finisca."
    "Va bene. Stai attento, Arcadia."
    "Certo." disse lui, per nulla convinto. Si girò in tempo per vedere la ragazza che stava correndo verso le scale dell'atrio, quando disse:
    "Aspetta! Dove pensi di andare disarmata?"
    Alicia si fermò, poi tornò verso Arcadia, che le passò il coltello a lama pesante. “Non andrai da nessuna parte senza un minimo di difesa. Buona fortuna, e scusami per prima."
    "No Arcadia, non devi scusarti." disse lei, lasciandolo un po' stupito. “Io capisco come ti senti... e credimi, mi dispiace. Avrò tempo e modo per spiegarti tutto, va bene?” Per un momento voleva abbracciarlo, ma poi, vedendolo così pensoso, pensò che non fosse il caso.
    “Va bene.” rispose lui, infine. “Fai attenzione.” Arcadia stette a guardare Alicia correre verso le scale, e sparire oltre.
    "Bella cavolata, Arcadia. Prima le fai una sfuriata come se la volessi ammazzare di insulti, facendola addirittura piangere, poi di colpo fai il carino e le chiedi pure scusa, così, come se fosse niente." si disse. "Mah, non riesco a capire nemmeno io cosa mi succede. Fai schifo, Arcadia. Fai... davvero... schifo." Pronunciò l'ultima frase scandendo accuratamente ogni singola parola.
    Arcadia si girò a guardare il resto del piano, ridotto in uno stato pietoso. Gli sembrava ancora più cupo e orribile di prima.
    "Beh, non sarà litigando con me stesso che uscirò da qui." si disse, infine. “Devo uscire da qui... e in fretta.”

    Edited by Vintovka - 21/2/2012, 09:26
     
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  4. Vintovka
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    TERZO CAPITOLO
    IMPARA A CONTARE SU TE STESSO



    Un istante prima, Arcadia aveva detto ad Alicia di correre via al sicuro. Adesso si stava un po' pentendo di ciò, e si sentiva come se avesse bisogno della sua vicinanza. Anche se non sapeva come potesse essere accaduto, in cuor suo sentiva di sapere perfettamente cosa stesse succedendo. Era una sensazione a lui familiare, ma qualcosa gli impediva di ricordare per bene.
    Si ricordo di avere delle armi, perciò fece un rapido calcolo dell'inventario.
    "La spada laser, la pistola... dannazione, non ho altro." si disse. Mentre fissava quest'ultima, notò subito una scritta incisa sull'arma che recava: <<impara a contare su te stesso.>>
    "Che diamine significa?" si chiese. Ma dentro di sé sapeva benissimo cosa poteva voler dire. Era stata scritta da qualcuno che conosceva evidentemente la sua insicurezza, tempismo perfetto dato che in quel momento era esattamente il suo stato d'animo.
    Decise di uscire per la stessa strada dalla quale era andata Alicia, perciò si diresse verso le scalinate. Però qualcosa lo attrasse. Un rumore proveniente dall'interno delle mura. Istintivamente guardò verso il muro vicino all'aula della ex-3A. Non dovette aspettare molto: il muro si frantumò e ne uscì una cosa strana, ma comunque in direzione di Arcadia.
    Il ragazzo non tardò a scansarsi, accorgendosi che quella cosa era un mostro serpentiforme. Il mostro aveva due braccia esili ma provviste di artigli, e la testa era un'unica, grande bocca munita di moltissimi denti. La bestia si fermò un attimo a sputare sangue, masticando rumorosamente, poi cercò Arcadia, che nel frattempo si era diretto verso le scalinate. Niente da fare per lui, le scale erano crollate. Istintivamente pensò subito ad Alicia, sperando che ce l'avesse fatta prima che cedessero. Ricordandosi di quella strana creatura, prese una pietra piuttosto grande, e la tirò addosso al corpo del mostro (NDS: chiamato Spitter). L'urto del sasso fu parecchio forte, ma il mostro si voltò, dopo aver scardinato una porta, e la tirò in direzione di Arcadia. Questa volta non fu così svelto, e fu preso in pieno. Mancò poco che cadesse di sotto, ma restò aggrappato al bordo della frattura delle scale. Non risalì subito, per far perdere le sue tracce al mostro. Si voltò un po' intorno, per vedere se poteva trovare un diversivo, e notò un qualcosa appeso vicino a lui. Era una mitraglietta d'assalto.
    "Questo è un modello PIXIE3... anzi, è la mia PIXIE3! Chi diamine l'ha appesa qui?" pensò, mentre con una mano la recuperò immediatamente. Intanto il mostro si avvicinava, e non sarebbe mancato poco al momento in cui si sarebbe accorto che Arcadia stava penzolando proprio sotto il suo naso. Senza pensarci due volte, il ragazzo mirò con la mitraglietta al bordo, aspettando che il mostro si affacciasse. Poi, scorse la testa.
    "ORA!" Fu un attimo: premette il grilletto e tenne teso il braccio quanto poté, anche se lo sforzo di stare appeso con un braccio solo non era indifferente. Nonostante il rinculo faceva tremare l'arma, i proiettili volavano via in alto verso il mostro, e mentre il sangue schizzava dalla calotta cranica dello Splitter, esso lanciava delle urla allucinanti, come una specie di persona a cui erano inflitte torture atroci. Arcadia non smetteva di sparare, sperando che il troppo dolore costringesse il mostro a battere in ritirata. Ma il mostro non scappò, accasciandosi invece al suolo senza vita.
    “Fortuna che mi è bastato un caricatore... perché non credo che avrei potuto cambiarlo in questa situazione.” Commentò, dopo essersi accertato che il mostro fosse effettivamente morto. Arcadia si arrampicò. Sfilò il caricatore vuoto dalla mitraglietta e ne raccolse tre ancora nuovi di zecca lì vicino. Si era appena rialzato, che sentì un botto assordante... e poco dopo venne scagliato con forza contro il muro da un colpo di calibro piuttosto grande.
    Una figura era uscita dall'aula la porta della quale era stata scardinata dallo Splitter: una figura umanoide, ma Arcadia dubitava che un essere umano potesse avere un cannone di quella potenza impiantato sulla spalla. Guardò più a fondo, e scorse una figura femminile, con una corazza sulla parte superiore del corpo di colore rosso fiammante. Ed era anche armata, al contrario di Arcadia, la cui mitraglietta era l'unica seria fonte di attacco.
    "Ah, guarda un po' chi abbiamo!" disse la ragazza-androide.
    "Cosa diamine...? Chi sei?"
    La figura estranea ridacchio. “Nine-B-G. C'è qualcosa di strano, secondo te?"
    "Mi sembri un po' fuori posto, come minimo mi aspettavo... che so..."
    "Taci." Stavolta la voce della androide era leggermente innervosita. “Cosa ne sai tu se sono a posto o meno?”
    Arcadia non le rispose, ma fece a sua volta una domanda. "Piuttosto... che vuoi da me?"
    "Mi sembra evidente" L'androide si voltò, pensante. Poi si voltò di nuovo verso di lui, con uno sguardo che lasciava ben intuire le sue intenzioni. "Voglio che muori."
    Arcadia indietreggiò. Avrebbe volentieri evitato di combattere.
    "Su, forza... ti hanno insegnato a combattere, no? Fammi vedere cosa sai fare!"
    Arcadia cercò di indietreggiare ancora di più, verso il corridoio laterale, ma il cancello si era chiuso di nuovo, e non c'era modo di aprirlo. Diede un'ultima occhiata all'HUD, sperando di essere rimasto in buone condizioni, visto che l'androide era chiaramente intenzionata ad attaccarlo, e poteva quanto meno sperare in una rapida fuga. Ma notò subito che la barra dell'energia, rimasta inspiegabilmente vuota fino ad allora, era ora piena. Subito gli balenò in mente un piano.
    "Sai cosa succede a chi troppo osa?" disse Arcadia in tono di sfida a 9BG, preparando lentamente la componente della core adibita all'azionamento dell'Over Boost.
    "Non ho tempo per la filosofia, Raven!" urlò l'androide per risposta.
    Era ormai pronto, Arcadia aveva guadagnato tempo a sufficienza, e il congegno dell'Over Boost si caricò di colpo con un rumore assordante in fretta.
    "Ottimo, perché stai per ricevere ben altro!" rispose Arcadia, e un attimo dopo aveva rilasciato l'Over Boost, fiondandosi a tutta velocità contro 9BG, la PIXIE3 puntata direttamente in viso alla ragazza androide. Non si aspettava questa mossa, e infatti il risultato fu schiacciante: Arcadia finì per gettarsi addosso all'androide con un calcio, per poi saltare via e puntare la PIXIE3 direttamente in faccia alla ragazza. Però 9BG non si era lasciata distrarre molto, e caricò la sua pistola (un vecchio modelli ad impulsi elettrici), e fece fuoco su Arcadia, il quale scappò subito con un rapido azionamento dei propulsori: però nel fare ciò urtò delle taniche ammassate vicino all'aula dietro di lui, la ex-1G. Non appena i proiettili elettrici colpirono le taniche, queste esplosero, e il pavimento prese fuoco. Arcadia fu costretto a ripararsi nell'aula, visto che le cose si mettevano male per lui. <<<
    "Dannazione, quella non può essere una donna...!" pensò Arcadia, guardandola negli occhi da una fessura nelle pareti di vetro (sbarrate da assi di legno): gli occhi della donna-androide brillavano di un rosso malefico, e la pistola ad impulsi era puntata su di lui. “No, assolutamente no, quella non è una donna! Cosa diamine sia, non ne ho proprio...”
    "ESCI FUORI, RAVEN!" urlò lei, interrompendo bruscamente il suo flusso di pensieri, e cominciò a sparare nella sua direzione, azionando al tempo stesso anche il lancia granate. Arcadia si scansò dalla traiettoria senza stare a pensarci troppo, mentre la parete di vetro si frantumava sotto i colpi, e pezzi di vetro misti a schegge di legno volavano dappertutto. Cadde piuttosto malamente sui detriti, in mezzo alle quali notò una lama. Era una spada sottile e affilata.
    "Questa farà al caso mio." disse Arcadia, raccogliendola. Era piuttosto lunga, circa 40 centimetri. Poi attivò subito i propulsori, per cercare di evitare la furia omicida del suo avversario. Ma 9BG lo aspettava: proprio mentre Arcadia correva a grande velocità, lei lo intercettò e gli assestò un fendente di spada laser. L'urto fu parecchio pesante, e Arcadia cadde a terra, mentre un fiotto di sangue spruzzò fuori dal suo braccio, ferito dalla spada laser di 9BG.
    "Che cosa... no, impossibile!" pensò Arcadia, guardando la ferita, che aveva lacerato la corazza metallica... ma poi, osservando pure dove era caduto sulle schegge di legno, vedeva che sanguinava, anche se lievemente. "Come può essere? I mech non perdono sangue! Dev'essere un allucinazione!" Questo, almeno, era quanto sperava: il dolore che sentiva in concomitanza delle ferite diceva il contrario.
    "Avanti, combatti!" urlò 9BG. Arcadia alzò lo sguardo verso l'androide, che stava avvicinandosi, col lancia granate spianato verso di lui. Allora, decise di andare contro di lei, mirando al cannone. Riuscì ad evitare l'ennesima granata con una schivata laterale, per poi afferrare la canna del cannone, e tirare più forte che poteva.
    “Cosa diamine stai facendo? E' tutto inutil... AAAAARRRGH!!” Il piano funzionò: la canna del lancia granate si strappò, con fiotti di sangue dalla spalla di 9BG. Mentre l'androide urlava per il dolore e si contorceva, Arcadia assestò un colpo con la canna del cannone rimastagli in mano.
    “SEI FINITO, TI UCCIDERO' A MANI NUDE SE NECESSARIO!!” urlò lei, ma non riusciva a trattenere il dolore, e rimase sul posto.
    “Io non sono affatto d'accordo!” rispose Arcadia. Senza aspettare che 9BG si riprendesse dalla ferita che le aveva squarciato la spada, prese la spada e gliela lanciò addosso. Il suo avversario se la vide arrivare in faccia senza possibilità di deviare il colpo, e l'arma andò a impiantarsi nel cranio della ragazza, seguita quasi immediatamente da numerosi corti circuiti. 9BG si contorceva in preda ad un dolore estremo, la spada doveva aver causato un malfunzionamento della parte meccanica dell'ibrida, e ora ne stava pagando le conseguenze.
    Arcadia ansimava, il braccio macchiato di sangue, così come la sua corazza. Ora che aveva scoperto che la sua armatura in quel posto infernale era tanto utile quanto un vestito di carta, era preoccupato. Si sentiva davvero in pericolo, adesso, e cominciava a capire perché Alicia lo avesse scongiurato in tal modo di non rimanere oltre.
    "C-che aspetti?" disse 9BG, interrompendolo di nuovo, con una voce che stava perdendo la parvenza umana, e assumeva un tono più mostruoso. "Finiscimi."
    Arcadia esitò, poi tirò fuori la pistola, e mirò. Ma poi non premette il grilletto.
    "C-cosa aspett-tti? V-vuoi sparare o n-n-n-o?" urlò 9BG, con un tuono sempre più mostruoso.
    “Per me sei già finita così.” Abbassò l'arma. “Non voglio infierire. Io non sono un mostro come te.”
    “BUUUGGIARRRRDOOOOOOOO!!!” urlò l'androide con tono rabbioso. Arcadia volle indietreggiare, cominciava a farlo sentire inquieto, ma invece rimase fermo. All'improvviso sentì uno strano rumore, come qualcosa che si carica elettricamente. Poi scorse con la coda dell'occhio un bagliore provenire da dietro di lui e diretto verso 9BG. L'esplosione fu parecchio luminosa, e l'androide saltò in aria, causando un buco nel pavimento. Purtroppo Arcadia non fece in tempo a scansarsi, e anche parte del pavimento sotto i suoi piedi crollò, facendolo scivolare.
    “NO!!” esclamò, mentre tentò invano di aggrapparsi, col risultato di agitare all'aria la mano del braccio non ferito. Il povero ragazzo cadde al piano di sotto, per di più accecato dal flash dell'esplosione e incapacitato di rendersi conto completamente di quanto stava succedendo. L'urto, particolarmente duro, venne attutito malissimo, tanto che Arcadia perse i sensi poco dopo, sempre mezzo stordito dal bagliore.

    "Arcadia... sveglia, Arcadia! Svegliati! Oddio, dimmi che sei ancora vivo!"
    Una voce, che gli pareva remota, lo incitava a svegliarsi. Un dolore lancinante percorreva le gambe e il braccio ferito. Arcadia si guardò intorno, la vista ancora offuscata. Aveva fatto un volo di ben due piani: il pavimento della parte centrale del primo era già sprofondato, e adesso il povero ragazzo giaceva lungo disteso su calcinacci e pezzi di grate rotte.
    "Arcadia! Dai, alzati!"
    Alicia era lì accanto a lui. Non era mai uscita dall'edificio durante tutto quel tempo.
    "Alicia... che diamine ci fai qui?"
    "Non sono riuscita ad uscire..."
    "Ti avevo detto di non aspettarmi!"
    "Ma l'uscita è chiusa! Sono tutte chiuse!"
    Ad Arcadia si gelò il sangue nelle vene. Erano in trappola.
    "Dannazione! E adesso?"
    "Non lo so, Arcadia. Fatto sta che un modo ci dev'essere..."
    "Sì... ma quale?"
    Arcadia si voltò verso quella che sarebbe dovuta essere l'uscita. Era completamente sbarrata: assi di legno, catene di ferro, sbarre di acciaio... ci sarebbe voluta una vita a togliere tutta quella roba. Arcadia era atterrito da quella prospettiva, indolenzito dai numerosi colpi ricevuti, spaventato da tutta la situazione che gli si poneva davanti. Teneva lo sguardo fisso a terra, e tremava. Se lo avesse raccontato in giro, non gli avrebbe creduto nessuno.
    "Arcadia, ti senti bene?"
    "E me lo chiedi pure? Certo che no."
    "Non scoraggiarti, posso aiutarti se vuoi."
    "Sei la persona meno adatta in questo momento!" disse subito Arcadia, voltandosi verso di lei. "Senza offesa, ma... come pensi di fare?"
    "Beh, un metodo lo troverò! E poi a quanto pare non è che stai messo meglio di me..."
    Anche Alicia aveva numerosi lividi, e i vestiti erano sporchi: anche lei a quanto pare doveva aver incontrato parecchi mostri.
    "Già. Hai ragione."
    "Senti Arcadia, temi forse che possa mor..."
    "Non pensarci nemmeno!" rispose Arcadia, e pareva piuttosto teso stavolta. Rimase a fissare la ragazza, poi disse: "Non pensarci nemmeno, chiaro? Pensa solo che dobbiamo uscire da qui."
    "Ma come?"
    "Non lo so... da dove partiamo? Ci sono parecchie zone da esplorare, ci sarà pure una via di fuga..."
    "Che ne dici se ci dividiamo? Tanto dal primo piano non si sarebbe potuti fuggire comunque, e poi è impraticabile."
    "Ok Alicia, allora tu controlla l'ala nord. Io controllo il bar, la palestra e la zona del'ala sud-centrale."
    "Come vuoi Arcadia."
    Arcadia fissò la ragazza: gli pareva assurdo che lei fosse tanto determinata mentre lui era visibilmente spaventato dalla situazione in cui erano finiti. Avrebbe voluto leggere nel pensiero di Alicia per capire da dove venisse tanta forza d'animo, magari avrebbe trovato un buon metodo per restare lucido pure lui.
    I due si separarono: Alicia si diresse verso l'ala nord del piano terra, mentre Arcadia si incamminò verso il bar del liceo.
    "Sperando che il pavimento non sia nuovamente sprofondato..." pensò Arcadia, mentre un brivido gli corse lungo la schiena, il braccio più dolorante che mai.
     
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  5. Vintovka
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    CAPITOLO QUARTO
    MOSTRI CONTRO MOSTRI



    Arcadia guardava dritto verso il bar, mentre avanzava. La paura gli correva in corpo, e teneva salda la sua mitraglietta, pur consapevole che non era del tutto sicuro di cosa stava facendo.
    “Eppure sono sicuro di aver già visto tutto questo… ma dove?” continuava a ripetersi. Non aveva smesso di pensarci, ma aveva una vaga impressione che quel posto gli era familiare, e non perché era il suo liceo seppur messo sottosopra in una maniera terribile. Forse stava impazzendo?
    Passando vicino all’ascensore, vide che era stato combinato come una cella di prigione. Ma il contenuto non lo fece sentir meglio: una figura umana vestita da infermiera vi si presentava impalata ad una sbarra che traversava tutta la cella in altezza, al centro di essa.
    “Poverina…” pensò Arcadia, e cercò di avvicinarsi per vedere la persona in faccia… poco dopo, tuttavia, vide che non era una persona, o almeno la faccia di quella figura non era propria di un essere umano.
    “Ma che diavolo…???” si chiese Arcadia. Poteva essere un mostro? Era un'ipotesi. Tuttavia era terribilmente simile a una donna. Si allontanò dal cubicolo, cercando di fare lo stesso con i suoi dubbi, e puntando in direzione del bar. Per sua contentezza il pavimento era tornato a posto, anche se sporco di sangue come se qualcuno ce ne avesse passato parecchio al posto della cera.
    Arcadia si introdusse nella stanza, anche se il vero e proprio bar era una stanza più piccola ed adiacente. La luce che filtrava attraverso le fessure delle sbarre di legno inchiodate alle porte coi finestroni che davano accesso al cortile (sbarrate anch’esse quindi) sembrava quella di un tramonto. Era già passato così tanto tempo? Ma non ebbe modo di continuare a riflettere, che un rumore lo colse di sorpresa… era un gemito di donna. E a giudicare dal gemito, la vittima stava soffrendo parecchio. Arcadia si voltò, e nonostante aveva visto parecchie brutte sorprese questa lo colse di sorpresa, e forse anche peggio. Un’altra infermiera dal volto sfigurato era distesa per terra, poco più in là ed era in pessima compagnia: avvinghiata ad essa stava un mostro con la pelle color ustionato e quasi di cuoio lavorato e poi graffiato, scheletrico nella corporatura, con una testa allungata, e con una coda lunghissima… anche se “coda” non è il termine adatto per quell’appendice che partiva dalla parte anteriore del bacino e con la quale il mostro stava violentando ripetutamente l’infermiera-demone, oltre che strangolando la stessa (la “coda” era parecchio lunga). Una serie di artigli dall’aspetto letale stavano inchiodando la vittima al suolo. L’infermiera-demone era visibilmente in preda al dolore più atroce, e si contorceva come poteva, cercando con le mani di allentare la presa della coda. Era uno spettacolo orribile, molto peggio di quanto aveva visto fin'ora.
    Arcadia non trovò di meglio che nascondersi in una zona d’ombra per evitare che il mostro passasse ad inchiodare lui. Caricò lentamente la pistola, cercando di non fare rumori bruschi. Poi, sempre lentamente, la puntò sul mostro, cercando di mirare con attenzione.
    Il mostro sembrava essersi immobilizzato, evidentemente aveva finito di torturare l’infermiera-demone, e mentre la coda si riavvolgeva addosso al corpo del mostro, esso restava in ginocchio, con la testa a penzoloni in preda a una sorta di amplesso, mentre il cadavere della sua vittima trasudava sangue scuro e restava pietosamente immobile. Arcadia uscì dal nascondiglio e senza esitazione piantò un proiettile nel cranio della creatura mostruosa, la quale si alzò di scatto con un urlo. Il mostro, lungi dall'essere morto, prese il cadavere della sua vittima, e la lanciò addosso ad Arcadia, il quale non riuscì ad evitarlo brillantemente. Subito si scostò il cadavere di dosso e saltò via per evitare l’attacco del mostro, dall’estremità della coda del quale era uscita una lama sottile e insanguinata. Arcadia riprese a sparare all’impazzata, mantenendo una distanza sufficiente ad assicurargli l’incolumità. Il mostro svolse la coda da addosso al suo corpo, e la usò come una frusta. Arcadia si vide la gamba destra intrappolata, e se ne rese conto solo non appena scivolò a terra nel momento in cui la coda scattò in trazione, cercando di trascinarlo il mostro. Mentre esso cercava di portarlo a sé per attaccarlo di nuovo, Arcadia sfoderò la spada laser, e con la mano destra si spinse verso la creatura, cercando di rialzarsi per poterlo colpire. In un attimo, tirò un pugno secco all'addome della creatura e subito dopo gli sferrò un fendente alla gola, senza però essersi accorto che lo aveva attaccato con due artigli, andando a danneggiarlo all’altezza del fianco destro. Arcadia lo spinse a terra una volta che smise di opporre resistenza, poi ne recise la coda, liberandosi la gamba. Si allontanò a sufficienza, osservando il mostro ormai morto, poi cercò la ferita apertasi durante lo scontro per provare a tamponarla.
    Un altro rumore lo disturbò nuovamente, e questa volta proveniva dalle due porte del bar, chiuse sigillate. Erano rumori per nulla rassicuranti, e ancor meno quando senti una voce di donna strillare parole incomprensibili, per poi interrompersi al suono di un qualcosa di grande che le fracassava il cranio.
    Improvvisamente la porta sinistra del bar si ammaccò, come se qualcosa stesse urtando contro di essa. Intuendo che dovevano esserci altre creature ostili, e dato che Arcadia non aveva alcuna voglia di combattere ancora, scappò verso la porta che dava al corridoio della palestra senza stare a ponderare tutte le alternative del caso.
    Il corridoio, di giorno, avrebbe dovuto restituire l’immagine dell’ambiente esterno, siccome le pareti erano dei vetroni resistenti. Ma non ora: era tutto nero, e piccole lampade mal funzionanti illuminavano il corridoio appena.
    Arcadia era parecchio nervoso. Tutto ciò che aveva visto era un repertorio di violenze gratuite e ambientazioni che potrebbero essere state luoghi di torture. Inoltre, la cosa che più lo spaventava era che tutto si era svolto nel suo liceo. Come mai non si era mai accorto di nulla in passato? Se avesse saputo che quel posto di aggregazione per ragazzi e di insegnamento celava un'ombra tanto nera e tanto orribile... sembrava assurdo, eppure era tutto così vero. O almeno così dicevano le sue ferite.
    Di colpo una luce si accese da dietro ad una delle pareti di vetro, illuminando una stanza. Già Arcadia non ricordava che ci fosse una stanza in quel punto particolare dell'intero edificio, ma fu l'interno a sorprenderlo, in maniera decisamente negativa. C’era un altro di quei mostri dalla coda lunga. Anzi, ce n’erano due. E uno stava facendo a pezzi un cadavere, mentre l’altro stava infilando numerosi coltelli sul cadavere di un’altra infermiera-demone.
    Arcadia si voltò di colpo, cercando di distogliere l'attenzione dalla scena già pietosa di suo, ma un’altra parete si accese, e un altro di quei mostri stava percuotendo la parete, come se volesse sfondarla e saltargli addosso.
    “Miseriaccia... qui è tutto andato a farsi fottere! Devo andarmene, dannazione! Subito” Cominciò a correre verso la porta della palestra, sperando che almeno lì dentro ci fosse un rifugio. Il corridoio sembrava non terminare mai, certamente era molto più lungo di quello che si ricordava. Pareti si illuminavano, e lasciavano intravedere scene di violenza, una peggio dell’altra. Una delle pareti era completamente rossa, per via di tutto il sangue sparso.
    Arcadia stava correndo a più non posso, quando all’improvviso gli venne lanciato in faccia dal nulla un drappo bianco. Tutto divenne buio, ed ebbe la sensazione di scivolare all'indietro, battendo la testa.

    Riaprì gli occhi. Era nell’ala nord. Tutto sembrava tornato normale… o forse no.
    Teneva tra le mani un corpo. Una ragazza in pessimo stato. Le braccia erano piene di graffi, e i jeans erano strappati. La maglietta tutta sporca di sangue, e i capelli tutti scompigliati.
    “Ma… cosa…?” Arcadia la guardò. Il collo era tutto insanguinato, forse era stata sgozzata. Poi, col cuore che batteva a mille dalla paura, si decise a guardarla in faccia.
    Il battito divenne un dolore lancinante: la ragazza lo fissava con occhi color nocciola ormai quasi del tutto velati, e la testa pendeva inerte.
    Era Alicia quella che teneva in braccio.

    “NO! NON PUO’ ESSERE! NO!!”
    Arcadia si tirò via il drappo di dosso. Era a terra, con la testa in fiamme e il cuore che sembrava scoppiare. Teneva le mani in faccia, voleva dimenticare quello che aveva visto. Poi batté i pugni a terra, e riaprì gli occhi.
    Era stato quel drappo…? Quel drappo che gli era stato buttato in faccia…era una visione? Era probabile che lo fosse. Ma era terribilmente realistica, si era sentito distrutto in quel momento.
    La vista di Alicia morente gli tornò in mente. Se quello che aveva visto era vero, non sarebbe servito a nulla andare avanti.
    “No, non può essere vero! Vai avanti, idiota!” pensò. “E’ tutta una trappola! Vai avanti!”
    Cercò di alzarsi, ma tremava. Di tutti gli incubi, quello era stato il peggiore.
    “Vai avanti... non è successo niente, è tutto finto... lei sta bene, devo solo sbrigarmi ad uscire...” Continuava a ripeterselo più volte, pur sapendo che la paura non lo avrebbe lasciato andare tanto facilmente.
    Notò subito che c’era qualcuno a terra. Fortunatamente non era Alicia, ma un’altra infermiera-demone. Stava singhiozzando. Alzò lo sguardo, e vide un qualcosa luccicare nel buio. Quel qualcosa fece fuoco più volte, spaccando la testa dell’infermiera-demone. Per poco un proiettile non lo mancò.
    “Ehi tu!” gridò Arcadia, sentendo che la persona con l’arma stava scappando. Si rialzò, cercando di non tremare, e corse all’inseguimento.
    In breve arrivò alla porta della palestra, e subito ebbe la sensazione che stesse piovendo. Guardò meglio, e vide che stava gocciolando sangue. Alzò lo sguardo: altri tre o quattro mostri dalla lunga coda torturavano un’altra infermiera-demone. A tratti scendevano giù anche brandelli della sua divisa, e la vittima urlava di dolore.
    “Ancora violenza…” commentò lui. “Ma cosa sta succedendo? E' una scuola o un mattatoio?” Infine, si decise a muovere la porta (che era piuttosto blindata, e non di legno come se la ricordava) per poi entrare nella palestra.
     
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  6. Vintovka
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    CAPITOLO QUINTO
    TUTTO CIÒ CHE MUOVE QUESTO MONDO



    Buio pesto. Arcadia non vedeva nulla, nemmeno con la torcia accesa. Il posto era buio, e sembrava vuoto. Forse era per quello che non si sentiva affatto sicuro, tuttavia scelse di farsi coraggio e di vedere cosa poteva esserci lì dentro. Sentì qualcosa, come un rumore di passi, e si fermò ad ascoltare.
    “Qua c'è qualcuno... vero?” pensò. Niente, i passi si erano interrotti. All’improvviso, un colpo tremendo alla schiena lo colpì scaraventandolo parecchio più avanti.
    Atterrò malamente sul pavimento della palestra, sporchissimo di sangue da quel che si vedeva con la luce della torcia. Un dolore terribile si propagava dalla schiena in tutto il corpo, e Arcadia si contorceva, cercando di resistere. Istintivamente mise la mano sulla ferita, e la sentì macchiarsi di altro sangue, del suo stavolta. Cercò di rialzarsi, ma l’improvviso accendersi delle luci della stanza lo colse di sorpresa, così come il conseguente spettacolo che gli si presentò.
    Una stanza delle torture, questa era la ormai ex-palestra. Ghigliottine, cappi per impiccagioni, pere vaginali. Ce n’erano per tutti i gusti e per tutti i sessi, tutte rigorosamente macchiate di sangue.. I cappi, in particolare, erano quasi tutti usati: erano rimasti parecchi cadaveri appesi. E Arcadia notò, parecchio disgustato, che anche se non c’erano bambini tra i morti molti di essi erano donne. C’erano anche mostri, ma solo infermiere-demoni. Un particolare che, se possibile, lo fece stare anche peggio.
    “Benvenuto nella mia umile dimora. Ti stavo aspettando.” disse una voce profonda e lenta da dietro Arcadia. Egli si voltò, e vide un altro AC. Un robot dal design spigoloso e la cui colorazione era terrificante: era copiosamente macchiato di sangue, e le mani erano diventate quasi nere, tanto erano sporche. I vari led e dettagli erano stati colorati di un rosso profondo, e anche le armi avevano preso la colorazione del mezzo. Faceva quasi impressione quell'affollarsi di linee spezzate, aveva un qualcosa di grottesco.
    “Tu… tu chi sei?” domandò Arcadia, che ancora si stava alzando.
    “Io sono Carbon. Questa è la mia dimora... e il luogo dove compio in silenzio il mio eterno lavoro.”
    “Lavoro?”
    “Qualcosa non va?”
    “Una lunga serie di massacri. Questo ti sembra lavorare?”
    “Ognuno ha il mestiere che si sceglie.”
    Arcadia lo fissò. Carbon riprese:
    “Io sono arrivato qui tempo fa, quando questo posto era vuoto, ma d'altra parte era d'estate e quindi era anche naturale che nessuno ci mettesse piede. Scoprii subito che poteva diventare un luogo perfetto dove portare le mie vittime, e dove eseguire i miei compiti.”
    “Un'artista insomma.” commentò Arcadia in modo amaramente sarcastico.
    “Tch, voi comuni persone non capite. Ed è meglio stare lontani da gente come voi... ma con la riapertura sarebbe stato difficile. Chiunque avrebbe potuto vedere il mio laboratorio, le mie vittime... o magari vedere addirittura me.”
    “Poi trovasti il metodo, a quanto vedo…”
    “Sì. Neith mi ha aiutato.”
    “Neith? Chi è?”
    “Non ti interessa. Per avere l’accesso a questo mondo, ho dovuto pagare un prezzo terribile… ho praticamente venduto l’anima al diavolo…”
    “Cosa?” Arcadia non credeva a quanto gli stava dicendo. “Smettila di raccontarmi palle e dimmi come sono andate veramente le cose!”
    “Umpf, non mi aspetto che tu creda alla mia storia. Ad ogni modo, ho stipulato un contratto con questo Neith. Se lui dovesse morire prima di compiere il suo obiettivo, allora lo seguirò nel suo destino. Però non è male, tutto sommato, perché finché lui resta in vita, vivo anche io.”
    “Tu sei pazzo.”
    “E allora tu cosa mi dici? Non sei forse stato tu a formulare questa frase per primo?”
    “Io non conosco Neith, che cosa vuoi…?”
    “ <<finchè lei vive, allora ci sarò pure io.>>” recitò Carbon canzonatorio. “Ti ricorda nulla?”
    Arcadia impallidì. Gli ricordava qualcosa eccome.
    “E questo come lo sei venuto a sapere? Chi diavolo sei?” gli gridò.
    Carbon rise, poi proseguì: “Touchè. A quanto pare non stai messo meglio di me. Qualcosa ti brucia, dentro. Anche tu, come me, hai un animo incompreso, ferito.”
    “Che cosa? Io non sono come te!”
    “Nessuno ha detto questo... invece, che dire di quella brutta ferita? Non penso che tu voglia andare avanti a cicatrici.”
    “Adesso non ti seguo, dove vuoi arrivare?”
    “Beh, visto che sei qui… permettimi di offrirti gli onori di casa.” Finito di dire ciò, comincio ad avvicinarsi, mentre la lama sul braccio destro si allungava minacciosa. La stessa che lo aveva colpito da dietro, e aveva subito capito che tipo di arma era: una spada retrattile dalla potenza letale.
    “Ehi! Non provarci neanche per idea!” urlò Arcadia, ma le parole non avevano effetto. Carbon si lanciò verso di lui, al che si scansò immediatamente per evitare di essere colpito.
    Arcadia era in piedi ora, e controllò l’HUD. Sfortunatamente, era rimasto a secco di energia come prima, mentre invece Carbon stava volando, grazie ai propulsori. E un attimo dopo, una decina di missili stavano avvicinandosi velocemente ad Arcadia.
    “VIA!!!!” urlò egli, correndo a cercare un riparo, mentre le testate si schiantavano al pavimento mancandolo per un pelo. Scorse la porta dell’ufficio destinato alla docenza, affrettandosi subito da quella parte. “Tanto non ho migliore idea al momento!” pensò, mentre sfondava la porta scansandosi e facendoci atterrare uno dei missili in arrivo. Entrò subito, e sbarrò la porta con parecchi pesi e mobili. Si guardò intorno, e cercò qualcosa da lanciare addosso a Carbon.
    “ESCI DA LI’ DENTRO, TANTO NON PUOI SCAPPARE!” urlò egli da fuori. Arcadia era terrorizzato.
    “Dannazione, quello è completamente impazzito! Cosa diavolo gli lancio addosso?” pensò, mentre cercava disperatamente una soluzione. Essa gli si presentò in un cesto dove, invece di palloni, si trovava un qualcosa di nero metallico, lungo e provvisto di canna.
    “Quello dev’essere… PERFETTO!!!” pensò. Aveva trovato un lanciagranate ad alto potenziale distruttivo appena in tempo, perché Carbon stava buttando giù la porta.
    Con un tempismo perfetto, nel momento in cui il suo avversario sfondò la porta, Arcadia sparò in faccia a Carbon un colpo devastante, scaraventandolo qualche metro piú in là, in una scia di rottami e sangue.
    Arcadia montò in fretta il cannone in spalla, e uscì. Carbon si era rialzato, e la testa era andata completamente distrutta, mentre da quel che rimaneva del collo uscivano fiotti di sangue. Nonostante ciò, Carbon si mise a ridere.
    “AHAHAHAHAHAHAH!! DILETTANTE!! PENSI DI POTERMI FARE MALE IN QUESTO MODO??”
    “Urgh... è inutile!” Arcadia era ancora più terrorizzato. Se fosse stato solo un incubo non avrebbe mai potuto spaventarlo a morte in una maniera del genere.
    “PERMETTIMI DI RICAMBIARE!” Urlando ciò, Carbon si lanciò contro di lui, sfoderando la spada sinistra. Arcadia fu rapido e tese la sua spada a difesa. Carbon ne approfittò si mosse rapidamente dietro di lui. Stavolta non fece in tempo a montare la guardia e ricevette un altro colpo di spada da davanti.
    “QUANTI GRAFFI E TAGLI DOVRO’ FARTI ANCORA?? RINUNCIA, E SOCCOMBI!!” Carbon urlava insulti e minacce, sempre più spesso. Arcadia si ritirò verso il muro della palestra dove erano appoggiate numerose barelle. Intravide un manico, e pregò che fosse un'arma abbastanza grande da tenere quella bestia a bada.
    “ARRIVO!!” urlò Carbon, e gli sì lanciò addosso. Arcadia aspettò che fosse sufficientemente vicino, afferrò il manico di qualsiasi cosa potesse essere e glielo scagliò addosso. L’impatto fu molto violento, quella cosa era un ascia bipenne di proporzioni notevoli, e il suo avversario vi si era schiantato addosso così forte che la corazza del suo mezzo era stata polverizzata.
    Arcadia gettò via da sé la lama, e Carbon restò da essa inchiodato al suolo.
    “NO…N PUOI SCAPPA…RE!!! N… ON OR…A!!!
    “Vai al diavolo, pazzoide! Questo è ciò che ti meriti!”
    “NON PU…OI SC…APPARE DA… DA LEI!!! LEI… LEI E’ TUT…TO CI…O’ CHE MUO…VE QUE…STO MO…N…DO!!!”
    “Lei chi?”
    “LEI… S…SIL…”
    Carbon s’interruppe. Il sistema principale del suo robot, connesso con le sue funzioni vitali, aveva appena cessato di funzionare.
    “Sil… Sil… Sil cosa????? Dannazione!!!” gridò Arcadia. Aveva l'impressione di aver ottenuto un indizio, ma talmente insignificante che non riusciva a farsene qualcosa. Si guardò intorno, e si rese conto di avere un altro problema. “Adesso come diavolo esco da qui??”
    La risposta non si fece attendere. Improvvisamente una sirena, tale e quale a quella che aveva sentito prima di svenire nel liceo, si fece prepotentemente sentire. E di colpo le luci si spensero.
    “Che succede??” gridò lui di nuovo, ma non vedeva nulla. E stranamente non sentiva nemmeno il pavimento. Era una sensazione stranissima.
    Un minuto dopo, le luci si riaccesero, e di colpo la palestra del liceo gli si ripresentò davanti. Tutti gli attrezzi di tortura erano scomparsi, e c’era solo una cosa a testimoniare la realtà di ciò che aveva visto: Carbon. Il suo cadavere, imprigionato nei rottami del suo AC, era inchiodato al muro dalla stessa lama che aveva usato. Le gambe e la testa erano strappati.
    “E adesso? Che gli hanno fatto? Non ricordavo di averlo mutilato a tal punto... oh, accidenti, andate al diavolo quanti ne siete! Ne ho abbastanza di aver a che fare con pazzi assassini!”
    Guardò Carbon un’ultima volta. “Hai avuto quello che ti meriti.” gli sibilò ferocemente. Poi se ne andò dalla palestra.
    Tutto era tornato normale, e Arcadia pensò che era ora di uscire. Ma prima gli venne in mente una cosa. Era sicuro che ci fosse qualcosa che non tornava. Subito la sua mente lo aiutò a ricordare.
    “Alicia!” Corse subito a cercarla, ma non la trovava da nessuna parte. Persino l'ala nord era vuoto.
    “Porca miseria, dove sarà? Spero sia scappata.” pensò, e così andò all’uscita. Si guardò intorno nell'atrio, cercando sue tracce, quando notò subito qualcosa di familiare nella cabina della reception: la lama pesante che aveva dato ad Alicia. La ragazza doveva essersene disfatta prima di abbandonare il liceo, a giudicare dal modo in cui era stata posizionata sulla scrivania.
    Si ricordò che doveva uscire, ma nel farlo trovò un biglietto appeso alla porta, e lo lesse.
    <<arcadia, torna a casa. Prima che sia troppo tardi. Non so chi ci sia dietro a tutto questo, ma so che sono seguaci di un qualcosa. Ti prego, fai in fretta. E cerca di stare in vita.>>
    “Alicia… allora sei ancora viva.” pensò rassicurato. Poi pensò ancora un po’…
    “Che cosa mi succede? Non so… mi sento strano… so solo che in questo momento anche Alicia è in pericolo. Ma le mie reazioni? Che diamine… cosa mi ha spinto a… oh diamine, sto messo davvero bene.” concluse, più confuso che mai.
    “Beh, non sarà rimanendo qui che troverò la risposta. Devo tornare a casa… adesso.” e detto questo, uscì dal liceo.
     
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  7. Vintovka
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    CAPITOLO SESTO
    PISCINE SENZA FONDO



    La prima cosa che Arcadia notò una volta uscito era che una fitta nebbia (piú fitta di quella di prima) aveva invaso la città. Ed esattamente come prima di entrare nel liceo, sembrava non esserci anima viva in giro.
    “Dove sono andati tutti?” si chiese, guardando all’aria abbandonata che la città aveva assunto. In particolare, alcune zone lo colpirono, perché gli ricordavano qualcosa. Però Arcadia non riusciva a ricordare: così come si sforzava di far emergere i ricordi, allo stesso modo contemporaneamente essi sfuggivano. Tutto quello che ricordava era un mondo strano, e tre lettere.
    “Sil… dannazione, non è sufficiente! Ci dev’essere altro!” Arcadia sapeva che, se voleva capire cosa stesse succedendo, avrebbe dovuto cercare altre informazioni. Decise di avviarsi verso casa: primo, perché, stando a quello che Alicia gli aveva lasciato scritto, avrebbe dovuto sbrigarsi. Secondo, forse sarebbe stato al sicuro chiuso a casa, invece di andare in giro con quella nebbia… potevano presentarsi altri mostri, e lui era stufo di combattere. Per quel che gli riguardava, aveva visto abbastanza.
    La stanchezza si faceva sentire, e non riusciva piú a correre. Inoltre il braccio ferito gli faceva ancora male, sebbene la ferita sembrasse essersi quasi rimarginata del tutto.
    Un quarto d’ora di camminata dopo, arrivò al punto dal quale era uscito dal parco, tappa obbligatoria per quel che riguardava il suo tragitto, oltre che la via piú breve.
    Arrivato, però, trovo una brutta sorpresa: un palo abbastanza lungo era stato conficcato nel terreno, ed era macchiato di sangue; sulla cima libera era stato impalato un fantoccio dall’aspetto grottescamente verosimile; sul petto del fantoccio era scritta una frase. Arcadia provò a leggerla.
    “Ah dannazione, non si legge niente. Che diamine di simboli sono?” si chiese, ma poi poco dopo gli venne in mente: “Queste sono rune Maygar… chi mai potrebbe usarle per scrivere?”
    Guardò verso il parco, e il vialetto affiancato da alberi gli fece venire in mente un’altra cosa. Qualcosa che aveva già visto.
    “Purtroppo non mi viene in mente niente… mi sarà necessario guardare tra la mia roba.” e pensato ciò, si rimise in cammino.
    Il parco aveva un aspetto ancora piú solitario, e a volte anche pietoso. I graffiti e i murales che vedeva di solito erano spariti, e ogni tanto comparivano simboli tipici di qualche strana setta, scritti in rosso scuro.
    Giunse alla piazzetta del parco, la cui pavimentazione era particolarmente rovinata. Ai vari porticati erano appesi i soliti viticci delle piante rampicanti, però erano secchi. Il cartello dedicato ad alcuni caduti che era solitamente affisso ad una parete era stato sostituito da un altro cartello scritto sempre in rune Maygar.
    “Adesso abbiamo pure i vandali in giro, a quanto vedo.” commentò Arcadia, un po’ disorientato: non gli era mai capitato di vedere il parco ridotto in quelle condizioni. “Beh, meglio andarsene.”
    Continuò a camminare in direzione di casa sua, però si accorse che in fondo alla strada che portava fuori dal parco c’era qualcosa. Cominciò a correre, avvicinandosi. Quando fu abbastanza vicino, vide cos’era: una porta di legno, vecchia e malridotta.
    Arcadia la osservò. “Davvero divertente… e immagino che porti da qualche parte. Beh, dovunque porti – finì sarcasticamente – di certo non porta a casa mia.” E la oltrepassò.
    Un rumore alle sue spalle lo colse: la porta era caduta a terra. Non appena si voltò, sentì che qualcuno da lì sotto stava bussando. Incuriosito, Arcadia sollevò piano la porta, e vide che c’era un buco.
    Si rialzò per poi voltarsi, ma si accorse che c’era qualcuno dietro di lui, e un attimo dopo era stato spinto da quel qualcuno giù nel buco.
    Atterrò malamente in fondo ad una stanza buia. Arcadia si rialzò, e accese le torce per vederci meglio. La luce illuminava un cunicolo non molto grande, ma abbastanza perché ci potesse passare.
    Guardò in alto e vide il buco dal quale era entrato. Non poteva risalire in alcun modo, e stava cominciando a far buio anche fuori.
    “Dannazione! Non c’è alcuna scala che possa farmi risalire! Mi tocca farmi il corridoio…”
    Così entro nel cunicolo, cercando di affrettarsi. Mentre camminava, sentì una sirena in lontananza, la stessa che aveva già sentito.
    “Stanno ancora lavorando a Marghera?” si chiese, ma ascoltò meglio: la sirena aveva una tonalità piú alta del normale, una tonalità che conosceva.
    “Ancora quella sensazione…” si disse, e aveva anche l’impressione che l’aria si stesse facendo pesante. Affrettò il passo e cerco di muoversi verso l’uscita, che stava diventando vicina.
    Arrivò alla fine, una scala per risalire, e si arrampicò fuori.
    “Oh no, piove!” fu la prima cosa che Arcadia notò. Inoltre, s’era ormai fatto buio. Uscì fuori dal buco, e trovò presto il coperchio della botola. Poi cercò qualcosa per coprirlo in modo da non farci uscire nessun altro… ma quando guardò alla ricerca di qualcosa, riconobbe subito che quel posto non era il parco.
    “Aaaargh! Do… dove diamine mi hanno portato???” Le pareti con le scritte rosse adesso erano piene di sangue, e i simboli satanici avevano lasciato il posto ad un solo tipo di simbolo, non molto ripetuto ma inquietante. Guardò a terra, e si accorse che il terreno della piazzetta era l’unico in pietra: il resto era tutto un diramarsi di grate. Neanche uno dei pochi alberi rimasti in giro dava segni di vita: erano tutti morti. E morte erano pure le varie persone impalate su alcuni rami, saldate in alcune pareti col cemento, spappolate sulla piazzetta oppure appese ai bordi delle grate. Al posto del grande laghetto che stava accanto ad alcune strade del parco, c’era un grande strapiombo dal fondo molto buio. Forse non aveva nemmeno un fondo.
    “Ma che posto è questo??? Chi… chi ca… CHI E’ STATO?” Arcadia era impazzito: dovunque guardasse, si sentiva in trappola. “TIRATEMI FUORI DA QUI!”
    Nel tentativo di trovare una via di fuga, corse nella prima direzione che gli capitò, senza voltarsi indietro e saltando i vari pezzi di cadavere lasciati a terra. Correndo, vedeva spuntare dagli alberi altri Hanters, simili a quelli incontrati vicino alla sua palazzina, e vedeva solo corpi di persone morte. Le uniche luci che vedeva, oltre a quella delle sue torce, erano quelle dei lampioni rimasti in piedi.
    Correva a piú non posso, quando inciampò in un qualcosa lasciato a terra. Si voltò per vedere cos’era stato, e vide una figura avvicinarsi.
    Quella figura aveva lineamenti troppo regolari per essere una persona. Vedendo meglio, si accorse che era un altro AC.
    “Fermati! Fermati, per Dio, o sparo!” gridò Arcadia, mettendo subito mano alla mitraglietta.
    “Ehi, calma, abbassa l’arma.” disse la figura. Quella voce la riconosceva.
    “Aspetta, io ti conosco!” disse Arcadia, guardando meglio. L’AC che aveva davanti apparteneva ad un Raven del suo stesso grado, chiamato Einhander. Il nome dell’AC era “Jigsaw”, per il semplice motivo che il design era un misto di vari modelli usati in passato dallo stesso pilota.
    “Eric, che… che diamine ci fai qui?” chiese Arcadia, che sapeva il nome vero di Einhander.
    “Potrei farti la stessa domanda.” rispose lui, con una voce leggermente profonda. “Credevo fossi a casa.”
    “E forse avrei fatto bene a restarci, peccato che sono rimasto chiuso fuori. Stanno succedendo cose strane. Prima sono stato al liceo, e non so veramente da dove iniziare…”
    “Ho visto anche io parecchie cose strane. E ho paura che non siamo nemmeno soli.”
    “A parte il pazzoide che sta dietro tutto questo, penso che invece siamo davvero soli… a parte una persona che ho visto al liceo.”
    “E chi sarebbe?”
    “Ehm… ora che ci penso non me lo ricordo bene.” Arcadia sapeva che stava mentendo, però non gli andava di dirgli di Alicia… sentiva che erano fatti parecchio personali.
    “Non importa. Ora pensiamo a come uscire di qui.”
    “Bella domanda. Non ho trovato una sola uscita…”
    “Se per questo non ce ne sono. Sono tutte bloccate.”
    “E senza energia per i propulsori, sono fregato.”
    “Anche tu???” chiese di colpo Einhander. La voce lasciava immaginare che fosse di colpo impallidito.
    “Certo, altrimenti credi che sarei rimasto qui?” rispose Arcadia, che non capiva perché si agitasse tanto. “Sono anche parecchio ferito, ci sono una marea di dannati mostri, e ho una dannatissima paura come non ne ho mai avuta in vita mia.” Poi pensò un attimo. “Forse… perché ho visto solo quello che mi faceva paura…”
    “Cosa vuoi dire con…?”
    “ASPETTA!” urlò Arcadia di colpo. “Quello che ci fa paura... aspetta, aspetta… no, non può essere…”
    “Che stai dicendo?”
    “Zitto, fammi pensare… Porca miseria… Porca miseria, sto cercando di ricordare…”
    “Ricordare cosa?”
    “Ho già visto cose simili! Porca miseria però, non ricordo dove! E’ come se la memoria si rifiutasse di aiutarmi… So solo che non è roba nuova.”
    “Indizi?”
    “Questo strano fatto a proposito del luogo e tre lettere: <<sil>>. Tutto qua.”
    “Sil?” chiese Einhander, che non stava capendo nulla.
    “Sì. Sil… e poi null’altro.”
    “Sei sicuro?”
    “Sì, dannazione! Ne sono sicurissimo. Non sono impazzito.”
    “E allora cerchiamo qualche altro indizio.”
    “Ma dove? E’ questo che non so…”
    “Cominciamo da qui. Hai detto che questo posto comprende tutte le cose che ci spaventano, no?”
    “E’ solo un’ipotesi, questa…”
    “Cominciamo dalle ipotesi allora. Le grandi teorie le hanno fatte andando a ipotesi, Arcadia.”
    “Hai ragione.” Arcadia era preoccupato. Qualcosa si stava facendo strada nella sua mente, ma gli pareva assurdo che persino la sua memoria non funzionasse come doveva.
    “Arcadia, che aspetti?” gli chiese Einhander.
    “Eh? Ah sì, scusami… ero assorto nei pensieri. Dici che dovremmo dividerci?”
    “Naturalmente. Ce la faremo.”
    “Se lo dici tu… ok, io proseguo per di qua.”
    “Io torno alla piazzetta. Ci si vede là casomai.”
    “Perfetto.” E così Arcadia si incamminò verso l’interno del parco, facendo attenzione a non inciampare ancora, e guardando con preoccupazione le piccole luci in mezzo ai prati, che altro non erano che mucchi di erba che stavano bruciando.
     
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  8. Vintovka
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    CAPITOLO SETTIMO
    I_ASS__E _AS_ S___ENTO _IRU



    Arcadia non voleva crederci: quel luogo… quel posto… prati in fiamme, costruzioni in rovina, cielo nero e pioggia… dov’era finito?
    Arrivò nei pressi di una piccola costruzione con un giardinetto, chiamato tipicamente “La gabbia delle rose”. Guardò piú a fondo, e vide che le rose avevano lasciato il posto a rovi e vermi che lasciavano scie sanguigne. Al centro del giardinetto si intravedeva un corpo seduto su un grande sasso. Il corpo era indubbiamente un cadavere: dalla schiena si ergeva un palo di ferro, evidentemente conficcato nel sasso. Parecchie siringhe erano conficcate nel corpo.
    Un brivido salì lungo la schiena di Arcadia. A peggiorare il tutto, alcune siringhe erano mezze piene di strani liquidi. Decise quindi di andare altrove. Guardò un po’ in giro e vide alcune cabine malmesse. Vicino ad una di queste c’era un cartello, e per fortuna di Arcadia era scritto in caratteri per lui leggibili.
    “Qua dice: <<alzatevi valorosi, impugnate le vostre spade come nel glorioso passato e andate vivendo il vostro presente e facendo strage di nemici, oppure a morire da eroi, ricordati per sempre nel futuro prossimo e lontano.>> Che strano cartello… e questo?”
    Appeso ad un albero c’era un fucile a pompa. Arcadia rilesse in cartello, poi prese l’arma. “Bah… non ci sto capendo niente.” pensò. Decise di andare avanti, quando notò un piedistallo. C’era una piattaforma con due cerchi concentrici tracciati con della roba rossa. E non era pittura…
    “Qua ci si può attaccare qualcosa.” notò, osservando l’area delineata dalla circonferenza interna.
    “Porcamiseria. Non mi viene nulla in mente.” Cominciò a guardarsi intorno. Tutto quello che vedeva era un luogo infernale.
    Improvvisamente, un rumore lo colse di sorpresa. Da un cespuglio di rovi, per l’esattezza, che si appendeva ad uno dei tanti buchi senza fondo nel terreno.
    “Che diavolo è?” si domandò, indagando su quello strano groviglio: gli era parso di scorgere qualcosa. Quel groviglio si muoveva in modo strano, e doveva esserci qualcosa.
    La cosa saltò fuori dal groviglio, e risalì sulla grata. Un altro Hanter. Arcadia stavolta non si spaventò, puntò freddamente il fucile in faccia al mostro, e prima che questo riuscì a saltargli addosso fece fuoco. L’Hanter venne scaraventato via con la testa mezza fracassata dal colpo.
    Arcadia tuttavia aveva percepito che qualcosa si stesse avvicinando, e si voltò, il fucile pronto a colpire. Un mostro, diverso, da quelli già visti, con la pelle di un colore bruciato e pieno di graffi, con due occhi neri e colmi di rancore… e con una strana ma orribile bruciatura in mezzo alle gambe.
    Arcadia premette il grilletto, facendo partire una scarica di pallettoni verso il mostro. La creatura rispose bene al colpo, visto che la pelle era parecchio secca e resistente. Poi reagì lanciandosi addosso ad Arcadia, che rispose con un calcio sul petto. Il mostro cadde a terra, ma prese il cespuglio e lo sbrogliò velocemente, ricavandone una specie di verga spinata. Poi si lanciò di nuovo su Arcadia, attaccando con la sua arma. Arcadia provò a parare con il fucile, ma il mostro tirò via l’arma, e poi sferrò un colpo con gli artigli, andando a colpire la spalla destra del Danger Alley.
    “Stammi lontano!” urlò Arcadia, riprendendosi il fucile e sparando piú volte al mostro. Questo per risposta cercò di colpirlo con un fendente verso l’alto, mirando alle gambe del suo AC. Arcadia rispose usando la spada laser frapponendola agli artigli della creatura, e poi lo spinse col piede giù dalla grata.
    Il mostro emise un urlo, che si affievolì man mano che precipitava. Arcadia si avvicinò al bordo, poi guardò dritto dove era caduto il mostro, aspettandosi un tonfo. Ma poi rinunciò, e andò via. Subito però urtò col piede un qualcosa. Si chinò a raccoglierlo.
    “Cos’è questo?” Aveva raccolto uno strano pezzo di legno, di forma perfettamente circolare, col bordo disegnato di rosso. Dietro era stato scritto <<past>>.
    “Past… passato… passato di cosa?” si chiese, poi decise di riporlo nell’inventario virtuale dell’orologio da polso.
    Era andato parecchio in fondo nel parco, e aveva la sensazione di essersi perso. Guardò in alto, e vide un cartello. Era parecchio sporco di pece, come se qualcuno ci avesse buttato sopra una grande secchiata di catrame. Riuscì a leggere parte della coppia di parole della seconda riga.
    <<i..ass….e ..as.. S……ento …iru>>
    “Ancora altre parole incomplete. Ma tutto a pezzi? Aspetta…” disse di colpo “Quello cos’è?”
    Una specie di amuleto circolare con un altro cerchio rosso era appeso al cartello. Arcadia si tese a raccoglierlo, tagliando il filo spinato con la spada laser. Lesse subito la scritta <<present>> dall’altra parte dell’amuleto.
    “Present… presente… forse ho capito.” pensò. “Però cosa me ne faccio?” Arcadia non aveva il benché minimo indizio: seppur aveva capito che doveva trovare un terzo cerchio rosso con scritto <<future>>, gli rimaneva oscuro il dove metterli, e come.
    All’improvviso sentì una brezza di vento. Gli parve molto strano, perché fino a quel momento non aveva sentito un benché minimo spostamento d’aria. Si girò intorno, e poi sentì un altro soffio di vento… piú intenso di quello di prima… quasi un sospiro.
    Arcadia continuò a stare in ascolto. Un terzo soffio gli passò accanto, e stavolta sentì un rumore distinto… il rumore che una lama fa quando taglia l’aria. Capì che non stava succedendo nulla di buono, e tornò alla piazzetta di corsa per evitare di poter finire giù dalle grate.
    Un quarto d’ora dopo, era tornato alla piazzetta, col fiatone e con fucile ancora in mano. Sul pavimento c’era scritto un messaggio:
    <<conquistati il futuro, viandante.>>
    “Che cavolo…?” stava cominciando lui, ma un’ennesima brezza di vento gli passò, stavolta addosso. E non era una brezza: stavolta fu un corpo vero e proprio ad urtarlo. Arcadia fu buttato piú in là, mentre comparve dal nulla un’altra figura.
    Doveva essere quella la causa dei continui spostamenti d’aria: una figura umana con addosso una tunica piuttosto rovinata e di colore scuro. Imbracciava una spada, o almeno doveva sembrarlo: la lama era piuttosto grossa e larga, seppur affilata i bordi. La testa era incappucciata, ma Arcadia poteva vedere due punti luminosi all’altezza degli occhi. Non aveva abbastanza informazioni per accertarsi del genere della persona (perché pensava fosse una persona, seppur stranamente veloce), così domandò alla figura:
    “Altolà! Chi sei?” Arcadia teneva il fucile con una mano puntato verso la figura, e con l’altra teneva pronta la fodera della mitraglietta: qualora ce ne fosse stato bisogno, avrebbe usato due armi alla volta.
    La figura avanzò con noncuranza, roteando lo spadone pigramente. Poi parlò una voce di donna:
    “Come se ti importasse veramente chi o cosa sono…”
    “Spero tu non abbia intenzioni ostili… e poi non colpisco una donna senza motivo, perciò vattene.”
    “BUGIARDO!”
    La donna sollevò il cappuccio, rivelando ad Arcadia la conferma di una sua convinzione: lo aveva dedotto dallo spadone, ma ora vedeva di fronte a sé l’emblema del Fascinator, un AC appartenuto ad una Raven eccezionalmente forte ma che aveva perso la vita al suo fianco, per colpa di una mostruosa macchina senza pilota. Una donna dalla testa ai piedi colorata di viola verso l’azzurro-blu, e i capelli seguivano la sfumatura.
    “Cosa… cosa hai detto? Perché pensi che io…?”
    “Non dire bugie… tu non sei quello che dici di essere, Raven!”
    “E che ne sai tu? Chi diamine sei per poterti permettere di dirmi…?”
    Non riuscì a finire la frase: il Fascinator, nome anche dell’emblema-donna, si lanciò contro di lui velocemente e lo colpì con la spada. Arcadia riportò ferite al petto, però riuscì a minimizzare i danni facendosi indietro e tenendosi pronto al contrattacco.
    “Non puoi sfuggirmi!” urlava lei, senza perderlo di vista.
    Arcadia non sapeva che dire… da dove saltava fuori quella donna? E soprattutto, cosa le faceva pensare che stesse dicendo bugie? Le parole della Fascinator gli facevano salire il nervoso: non era stato tutta la vita a sforzarsi di controllare le sue emozioni, i suoi impulsi… non era forse servito a qualcosa dominare sé stesso?
    “Se è questo che vuoi…!” rispose Arcadia, e puntò il fucile contro la donna, per poi cominciare la controffensiva.
    Fascinator si spostava troppo velocemente per lui, ma Arcadia non la perdeva di vista: finchè faceva fuoco poteva sperare di allontanarla. Ma poi si inceppò il fucile: aveva finito le munizioni, e aveva capito che ora doveva nascondersi al più presto.
    L’aria cominciò a spostarsi, e la donna sparì. Arcadia si buttò dietro un muro appena in tempo per evitare il colpo dall’alto della Fascinator. Ne approfittò per colpirla, ma lei schiodò lo spadone dal terreno e lo colpì violentemente di nuovo, facendolo cadere.
    “Hai finito di massacrare!” urlò lei, e si lanciò contro di lui. Arcadia tese la gamba sinistra, sperando che inciampasse: e così fu, facendo perdere alla Fascinator, oltre all’equilibrio, anche lo spadone. Arcadia si rialzò e corse a prenderlo, per poi lanciarlo addosso alla donna prima che si rialzasse. L’arma emise un brusco tonfo, segno che la lama aveva colpito in pieno la sua nemica, e un altro tonfo gli disse che la Fascinator era caduta a terra, incapace di continuare a reagire.
    “Massacrare… ma cosa?” si domandava Arcadia, non capiva perché queste accuse. “Cosa diamine…?”
    Guardò al Fascinator, e vide un amuleto appeso al suo collo. Era uguale a quelli che aveva raccolto, e lo esaminò.
    “Future, come previsto. E adesso?”
    All’improvviso sentì un grido. Una voce troppo familiare.
    “Eric… temo sia nei guai!” e corse nella direzione della voce. Non dovette andare molto lontano: stava sulla strada principale che portava all’uscita del parco.
    “Eric, che diamine sta succed… AAARGH!!”
    L’AC di Einhander era completamente distrutto, e a giudicare dal lago di sangue che lo circondava Eric non doveva piú essere vivo. Arcadia vide che un paio di mostri dalla pelle bruciata e livida stavano scappando nell’oscurità, seguendo quella che era una figura completamente nera.
    “E-E-Eric… Eric!” Arcadia rivolse l’attenzione al Jigsaw, sapendo che era arrivato decisamente tardi. Nello stesso tempo la figura nera rivolse lo sguardo sul Danger Alley: fu allora che istintivamente Arcadia alzò di nuovo lo sguardo, incrociando quello della misteriosa figura.
    Un bagliore di luce, e un forte dolore lo pervase su tutto il corpo, costringendolo a stendersi. Non vedeva nulla, e poi…

    Si svegliò sulla piazzetta. Rialzandosi noto che il buio circondava tutto ciò al di fuori di essa. Non vedeva nulla oltre.
    “Che posto è mai questo?” si chiese. Era disorientato, e non aveva idea di cosa stesse succedendo. Guardò a terra, in cerca di qualcosa… e vide un simbolo dipinto a terra. Quel simbolo.
    Aveva capito a cosa servivano gli amuleti…e qualche ricordo gli riaffiorò alla mente.
    Era in un bagno, la luce del tramonto che filtrava dalla finestra. Una ragazza aveva chiuso la porta per evitare che un vecchio maniaco la inseguisse. Arcadia era nascosto nello stesso bagno, ma stranamente la ragazza non se ne accorse. Si guardò un attimo, e capì il perché: era invisibile.
    “Strani ricordi…” pensò, poi osservò la ragazza. Doveva avere all’incirca la sua età, 17 anni, e aveva capelli biondi, non tanto lunghi e lisci. Era anche carina tutto sommato, ma in faccia le leggeva una strana stanchezza, come se non avesse dormito da una vita.
    La ragazza stava osservando lo specchio… c’era qualcosa che non andava. Quel simbolo rosso era disegnavo con della pittura (era pittura? Arcadia ebbe il timore di no), e la tizia si lamentava che le faceva venire un gran mal di testa.
    Poi un altro lampo di luce bianca, e tutto sparì.

    Arcadia si rialzò da dove era svenuto, il fianco sporco del sangue di Einhander. Si guardò intorno, cercando con lo sguardo il piedistallo con i due cerchi rossi. Lo individuò subito, e poi corse. Non sapeva a cosa avrebbe portato, però si disse: “Devo provarci.”
    Sistemò i tre amuleti circolari in ordine antiorario, col Passato in alto e il Presente accanto al Futuro, questi due sotto il Passato.
    Subito scattò qualcosa, e i due cerchi si illuminarono. Poi si spense tutto: lampioni, candele, sembrava che persino il cielo si stesse oscurando. E poi di nuovo quella sirena maledetta.
    “Dove ca… dove diavolo mi porterà adesso?”si chiese Arcadia, col cuore che batteva a mille. Poi gli venne un salto allo stomaco: stava lasciando Einhander in quel mondo orribile. Però, si disse, non poteva farci nulla… non poteva salvarlo dalla morte.
    Il risveglio nel parco come se lo ricordava lui fu traumatico. Si stava facendo notte, e non sapeva cosa fare. Sembrava che dovunque andasse succedevano disastri.
    Il corpo di Einhander era ancora lì, esattamente come quello di Carbon rimasto nella scuola. Arcadia aveva paura. Era completamente disorientato, e aveva il sospetto che tornare a casa non avrebbe piú risolto nulla. E poi… pensava ad Alicia. Stava bene? Era ancora viva?
    “Andiamo… che domande sono?” si disse. “E poi… non avevi detto che non volevi averci ancora a che fare con lei?” Sapeva che parlare da soli poteva essere frainteso come sintomo di pazzia… ma aveva bisogno di interrogarsi, di guardarsi dentro, di scoprire qualcosa. Perché non riusciva a smettere di chiedersi se la Fascinator avesse ragione… aveva davvero mentito su sé stesso? Aveva davvero mentito, a sé stesso compreso? E perché tutto d’un tratto parte dei suoi ricordi erano diventati irraggiungibili? Forse il suo tentativo di dominare sé stesso aveva distrutto parte dei suoi ricordi di qualche suo sbaglio del passato, quei suoi sbagli dai quali si era sempre detto di imparare a non ripeterli piú?
    Cosa stava succedendogli?
     
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  9. Vintovka
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    CAPITOLO OTTAVO
    UN POTENZIALE PERICOLO PER L'ASCESA DI DIO



    Il pomeriggio aveva lasciato il posto ad una sera ancora debolmente rischiarata dal sole, seppur ancora per poco. Arcadia correva come mai aveva fatto, e mentre correva pensava. Tutto ciò che stava succedendo era assurdo... chi era l'autore di tutto ciò? E perchè sembrava che lui fosse coinvolto? E perchè quei pochi indizi che affioravano dalla sua memoria rimanevano così oscuri, così irraggiungibili?
    Mentre questi pensieri gli ottenebravano la mente, la sua corsa lo aveva portato nella strada dov'era casa sua. Nulla era cambiato da come l'aveva vista prima: il cadavere decapitato, la nebbia, tutto era rimasto come prima.
    “Questa città ha qualcosa che non va... che sta succedendo?” si chiedeva continuamente.
    Raggiunse il cancello del cortile di casa sua, e si accorse che era aperto... la serratura era completamente andata, divorata dalla ruggine. Guardando allibito le condizioni in cui era ridotto il cancello e la recinzione sul muretto, si diresse automaticamente verso la porta del suo appartamento. Solo che qualcosa era cambiato: era stata strappata dai cardini e ora giaceva appoggiata ad uno dei pilastri.
    “Che... diamine...???” Arcadia non aveva mai visto una cosa del genere da nessuna parte se non nei film. Questo per lui significava una sola cosa: c'era sicuramente qualcosa che non andava. Corse dentro l'appartamento, per poi salire le scale. Le luci non funzionavano, e la penombra era quasi completa.
    Arrivato davanti alla porta di casa sua, si accorse che non era più sbarrata. Istintivamente provò ad aprirla, e con sua sorpresa ci riuscì senza chiavi. Tuttavia dopo rimase sconcertato: la porta lasciava intravedere un cubicolo tipo ascensore, solo che le pareti erano tipo gabbia, per giunta arrugginite in gran parte.
    Mentre osservava tutto ciò col fiato mozzato, Arcadia sentì all'improvviso qualcuno che lo spinse dentro. Si girò subito, e con sua ancora più sconcertante sorpresa vide che la figura nera era davanti a lui, con una luce rossa negli occhi... ma non era un essere umano. Era un altro AC. Un AC nero.
    “Chi sei??” gli urlò lui, ma la figura non gli rispose, e gli sbatté in faccia il cancello dell'ascensore. Un momento dopo la stanza vibrò, e cominciò a scendere in giù lentamente.
    “ASPETTA!!” gridò, ma era inutile: Arcadia era intrappolato lì dentro, e l'AC nero si limitava a guardarlo. Poi disse qualcosa, con una voce profonda.
    “Il rito... è cominciato...”
    “Rito?” si chiese Arcadia. “Quale rito??” provò ad urlare poi, pur sapendo che non avrebbe avuto risposta.
    Dopo un po' l'ascensore si fermò, e il cancello si aprì. Un corridoio lungo gli si parava davanti, e non aveva altra scelta che percorrerlo. Mentre si dirigeva verso la fine, sentì di nuovo quell'infernale sirena.
    “Sta succedendo di nuovo...” disse tra sé. Corse più velocemente, e raggiunse l'uscita, che dava sul sottoscala dell'appartamento. Non badò alle condizioni dell'ambiente, e si fiondò fuori.
    Grate dappertutto avevano coperto il pavimento, i pilastri erano stati sostituiti da tubi che si appoggiavano nel vuoto, i palazzi erano tutti fatiscenti, e pioveva. Sangue in abbondanza era presente sulle mura, sulle grate stesse, e un forte odore di bagnato permeava l'ambiente. Il cielo era completamente nero.
    “Perdio, cosa diamine è successo??” si disse Arcadia. Andò fuori per controllare la situazione, e rimase impietrito... l'intera città era sprofondata in quell'inferno. Arcadia si voltò, e trovò un'altra brutta sorpresa: in cielo si vedeva una specie di corpo celeste, ma dalle dimensioni apparenti sembrava fosse più vicino della Luna, almeno la metà della distanza. Era esteticamente uguale alla Terra, soltanto che era completamente infuocato, e un larga spaccatura lineare conferiva al corpo l'aspetto di un occhio che fissava Arcadia.
    Questa cosa lo fece sentire stranamente male, tanto che si voltò immediatamente per interrompere il contatto visivo. Una volta ripresosi, la sua testa era piena di pensieri, uno più confuso dell'altro.
    “Che posto è questo? Non può essere Mestre... dove sono finito?” Arcadia era sempre più spaesato, e un forte senso di impotenza di fronte a quanto stava succedendo lo pervase. Nervosismo e nausea ancora lo attanagliavano, e continuava a pensare che niente di tutto ciò era mai successo in vita sua prima d'ora.
    Si fece forza e si girò, cercando di ignorare quella grande palla di fuoco in cielo... e con sua sorpresa trovò una figura che vi si era parata davanti.
    “Chi è?” disse Arcadia, concentrandosi sulla sua silhouette. L'altro essere non si mosse, ma cominciò dicendo:
    “Il rituale è cominciato. Arriveranno da tutto il mondo per assistere alla creazione di un nuovo Regno... un Regno costruito da mani sporche di sangue impuro.”
    Arcadia ascoltava, immobile: la voce era la stessa dell'AC nero. La figura continuò:
    “Dimenticate questo mondo... è stato invaso da un'altra dimensione, dove gli incubi di qualcun'altro diventano realtà. Xuchilbara e Losbel Vith hanno di nuovo un Dio... presto, quello che doveva diventare il nuovo Regno, ostacolato da sciocchi mortali... presto, tutto sarà realtà.”
    Arcadia a questo punto decise di riprovare. “Chi sei?”
    L'AC nero rispose: “Io sono il figlio di colui che valorosamente combatté ma che non altrettanto perì.” Vedendo che Arcadia non capiva, continuò: “Il mio nome è Neith Necris. Il mio Armored Core, Divine, è stato costruito nello stesso periodo del tuo Danger Halley.”
    “Cosa?”
    “Vedi, tu sei un potenziale pericolo per l'ascesa di Dio. Il tuo potenziale è talmente immenso che niente è riuscito a fermarti. E questo mi preoccupa. Se Dio vuole avere una speranza di scendere su questo mondo, bisogna prima eliminare ciò che potrebbe ucciderlo.”
    “Tu menti. Non puoi parlare di uccidere un Dio. Per quanto poco io sia credente, non mi risulta che Dio abbia bisogno di scendere su questa terra, né tantomeno di persone che si ritengono immeritatamente suoi protettori.”
    “Allora non stiamo parlando dello stesso Dio.”
    “E cosa vuoi dire allora?”
    “Lo capirai... devi venire in piazza.”
    “Non vuoi forse eliminarmi?”
    “Non ora... la mia potenza non è ancora completa.”
    “E dove pensi di andare?”
    “Questo non t'interessa.” Con quest'ultima frase Neith caricò ogni suo propulsore e si allontanò. Man mano che scompariva, il grande occhio dietro di lui tornò a fissarlo. Questa volta Arcadia non poté voltarsi in tempo che un mal di testa fulminante lo prese in pieno. Aprì gli occhi, e vide che la palla di fuoco si stava sgretolando. Poco dopo saltò in aria, scagliando raggi di luce rossa, pietre incandescenti e gocce di sangue ovunque. Intuendo quanto stava per succedere, ignorando il mal di testa e il cedimento delle gambe, Arcadia corse e si gettò al riparo dietro un edificio lì vicino. Qualche secondo dopo, il putiferio: la pioggia divenne rossa di sangue, e pietre di medie dimensioni cominciarono a colpire ogni cosa, fracassando vetri, alcune grate, e danneggiando i muri. Arcadia cominciò ad urlare, mettendosi le mani sulle orecchie, terrorizzato. La situazione però non migliorava, perciò riprese a correre, cercando un riparo migliore: una pietra lo aveva quasi preso.
    Svoltò l'angolo, ma cambiò direzione: altre creature mostruose gli bloccavano la strada. Erano decine, e tutte lo puntavano. Velocemente attivo il lanciagranate in posizione operativa, e al grido di “Ingoiatevi questo!!”, fece fuoco due o tre volte. I mostri saltavano in aria oppure venivano lanciati sui muri dall'esplosione. Si era così creato un varco, e approfittandone del momento di caos, notando rapidamente che l'energia del Danger Halley era tornata in funzione, attivò l'Over Boost per lanciarsi lontano da tutti quei mostri, che cominciarono a inseguirlo. Arcadia si voltò, e sparò con la PIXIE3 alla cieca, cercando di far desistere gli inseguitori. Si bloccò alla chiusura del vicolo, era in trappola. O quasi.
    “Conosco già questo trucchetto... spiacenti, avete sbagliato persona!” e azionando i propulsori, prese quota, mentre i mostri gli lanciavano addosso versi disgustosi. Riposizionò il lanciagranate e dall'alto gli sparò addosso un altro colpo, per assicurarsi che fossero tutti morti o che almeno se ne fossero andati.
    Atterrò sul tetto di un palazzo ormai chiazzato di rosso per via della pioggia, e si fermò a osservare il panorama. La pioggia di pietre era cessata, e il cielo era tornato nero cupo.
    “Secondo me... neanche Dio sa che sta succedendo. Questo non va bene... proprio per niente. Devo trovare un modo per andarmene prima che un'altra palla di fuoco mi faccia a pezzi.”
     
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  10. Vintovka
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    CAPITOLO NONO
    LA CITTA' MARCIA



    Arcadia cercò un punto ideale per cominciare la discesa, per evitare di finire addosso a qualche mostro o su una macchina. Visto che non vedeva bene cosa ci fosse sotto di lui, si catapultò con l’Overboost sul tetto del palazzo di fronte, piú basso. Da un’altezza minore il buio si fece meno fitto, rivelando una strada intrisa di sangue, ma deserta. Il Danger Halley era anch’esso macchiato, ma di meno per via del suo continuo spostamento che faceva scivolare via le gocce.
    Atterrò quindi sul marciapiede, guardando in aria. Il cielo era ancora nero, e la pioggia rossa stava cessando. Arcadia notò che c’era un altro AC, di color grigio, fissato al muro tipo crocefisso, un AC che egli riconobbe come "Fracture". Con suo orrore gli tornò in mente che un setup simile era stato assegnato da lui stesso ad Alicia durante una sessione di addestramento nella quale voleva farle provare come ci si sente a bordo di un Armored Core, oltre ovviamente a insegnarle qualche nozione di combattimento. Il robot era rimasto stranamente intoccato dal sangue che pioveva, tuttavia decise di non curarsene troppo, e torno subito a pensare alla sua prossima mossa.
    “Forse è meglio spostarsi da qui… Neith ha detto di trovarlo in piazza. Se è proprio là, non avrà scuse per tacere.” pensò tra sé. Fatti pochi passi però la pioggia si interruppe, e un debole suono ronzava attorno. Sembrava quello di molti pezzi di carta accartocciati.
    “Cosa…?” si domandò, voltandosi intorno. A poco a poco milioni di pezzetti tipo carta strappata scesero dal cielo, oscurando la visibilità. Erano ovunque, e puntavano in direzione di qualsiasi cosa, tranne che verso di lui. Il fruscio si fece piú forte, e sentiva altri rumori di qualcosa che si piegava, tipo lamiere di automobili.
    La pioggia di pezzi di materiale durò poco meno di un minuto, finita la quale Arcadia riaprì gli occhi. Mestre era tornata davanti a lui, tutto come prima. O quasi: la nebbia e le case sbarrate erano rimaste. Ma non si trattava piú di quel posto infernale.
    “Assurdo!!” gridò lui, guardandosi intorno. Un altro pezzo accartocciato svolazzava verso una crepa nel muro. Arcadia la osservò fluttuare nell’aria fino a raggiungere un piccolo buco nel muro che lui non aveva mai visto lì, per poi posarcisi sopra e coprirlo perfettamente, come se non si fosse mai staccato. Non poteva credere ai suoi occhi: era una cosa decisamente fuori dal comune.
    Istintivamente, si voltò verso dove c’era Fracture… e vide che era scomparso. Al suo posto, sul muro, una macchia brunastra, e una scritta bianca:
    “Fracture non c’è. E’ con lei, a Silent Hill.”
    L’ultimo nome gli lasciò una sensazione strana addosso. Silent Hill…
    All’improvviso, la sua mente si “dilaniò” di colpo, riportandogli alla memoria alcuni indizi.

    “NON PU…OI SC…APPARE DA… DA LEI!!! LEI… LEI E’ TUT…TO CI…O’ CHE MUO…VE QUE…STO MO…N…DO!!!”
    “Lei chi?”
    “LEI… S…SIL…”


    “Ora capisco di cosa stava parlando Carbon… e quel Neith che ho incontrato…”

    “Sì. Neith mi ha aiutato.”
    “Neith? Chi è?”
    “Non ti interessa. Per avere l’accesso a questo mondo, ho dovuto pagare un prezzo terribile… ho praticamente venduto l’anima al diavolo…”
    “Cosa??? Andiamo, dici sul serio???”
    “Ho stipulato un contratto con Neith… se lui dovesse morire prima di compiere il suo obiettivo, allora anche io dovrò morire. Però almeno ne guadagnò una vita pressoché infinita: finchè Neith vive, vivo pure io.”


    “Neith Necris… quell’essere schifoso… è stato lui ad aizzarmi addosso Carbon. Ma cosa diamine sta facendo? E soprattutto… c’entra qualcosa con Silent Hill? Già… Silent Hill…”
    Ora Arcadia ricordava parecchie cose, prima di tutto il simbolo rosso, poi anche la ragazza bionda nel bagno che aveva visto nella visione al parco.
    “L’Halo… tutto questo non mi è nuovo. Se solo ricordassi di piú…”
    Si guardò attorno, il cielo stava schiarendo, e la nebbia non cambiava di intensità.
    “Forza, avevamo detto che si andava in piazza... spero di non trovare altre brutte sorprese.”
    Camminò fino alla fine della via, e trovo che gran parte delle macchine erano sparite. Al posto di alcune di esse erano rimaste le ruote.
    “Anche i ladri di macchine ora...” commentò sarcasticamente. Si incamminò lungo la via che portava verso il parco. Se avesse guardato con più attenzione a terra, avrebbe notato un'ombra dietro di lui... qualcuno lo osservava.
    Trovato l'incrocio per la strada principale, continuò dritto senza scomporsi, anche se notava parecchie auto che avevano sbattuto contro i muri ed erano a pezzi. Osservava i lampioni spenti e impolverati come se fossero di un'altro mondo... e in effetti quell'atmosfera aveva un che di ultraterreno, anche se non propriamente in senso positivo.
    All'improvviso un clacson attirò la sua attenzione, ma non riusciva a stabilirne la provenienza. In compenso, qualcosa si avvicinava verso di lui. Arcadia guardò meglio per cercare di vedere meglio nella nebbia... un'ambulanza si stava avvicinando pericolosamente verso di lui a tutta velocità, e riuscì ad accorgersene in ritardo. Rapidamente saltò su un marciapiede cercando di schivare il velivolo impazzito, e mancò poco che non venne travolto. L'ambulanza continuò quindi la sua corsa andando a schiantarsi contro una delle auto distrutte in lontananza e saltando in aria insieme a quest'ultima.
    “Che... diamine...????” Arcadia era allibito. “I casi sono due... o qualcuno ha voluto uccidermi, o...” non finì subito la frase, perché la seconda ipotesi era per lui assurda. “...o quell'ambulanza mi è venuta addosso di sua volontà.”
    Un altro rumore, stavolta di un lanciagranate che veniva azionato. Arcadia si spostò istintivamente in tempo, e un colpo esplose lontano da lui. Alzò lo sguardo al cielo per vedere il responsabile.
    Era un altro AC, colorato esattamente come il Danger Halley... ad Arcadia venne un colpo: ERA il Danger Halley. Però non proprio uguale al suo AC: quello che stava svolazzando in aria con uno sguardo minaccioso era una vecchia versione, dotata di equipaggiamento completo.
    “No, questo è proprio impossibile.” osservò lui sconcertato. Per una persona esterna alla faccenda sarebbe parso normale, ma per lui, un pilota con una lunga esperienza alle spalle, questo era inconcepibile, specie se per il pilota l'AC diventa qualcosa di più di un semplice complesso gigante di metallo.
    “Identificati!” urlò Arcadia al Crest Danger Halley (così chiamato dal nome della corporazione che aveva fabbricato molte delle parti del vecchio modello). Sperava che i termini specifici avessero indotto una collaborazione. Come però si aspettava, Crest D.H. non rispose.
    “Dannazione... è un A.I.! Non ha pilota...” Arcadia sapeva perfettamente cosa fare: era impossibile fermare un AI che era stato programmato per non voltarsi mai. Pensò quindi di affrontarlo, ma poi pensò che doveva tenere da parte molte delle armi per Neith, perciò optò per la fuga. Attivò quindi l'Overboost, e mentre il Crest D.H. gli sparava ancora il Danger Halley si mosse rapidamente fuori raggio in direzione della piazza.
    Mentre correva, alcuni oggetti saltavano in aria, e proiettili venivano continuamente scagliati verso di lui. Guardando dietro, vide l'AC indemoniato che continuava ad inseguirlo senza sosta, muovendosi con sorprendente velocità da una parte all'altra per variare angolo di lancio ed evitare ostacoli. Durante la corsa, trovò un palo spezzato con un'estremità appuntita. Senza perdere tempo la prese, si voltò e la scagliò contro l'AC. Un tonfo di metallo sfondato echeggiò nell'aria, ma non rimase a vedere e optò per l'allontanamento immediato.
    Raggiunse la piazza davanti a un centro commerciale, e notò uno schieramento di quelle trottole giganti già viste nel liceo. Tre procedevano sul lato sinistro, tre sul destro, e una nello spazio in mezzo.
    “Oh dannazione, ancora quelle cose.” Arcadia tuttavia non perse la calma, e si guardò attorno. Un altro paio di pali scheggiati giacevano a terra. Tuttavia non li raccolse, sarebbe stato difficile danneggiare quelle creature.
    “Ok, visto che non ho scelta, vediamo cosa fate con questo.” e azionò il lanciagranate. Aspettò che le trottole si raggruppassero tutte nella loro foga omicida, e poi sparò un colpo solo. L'impatto fu devastante, e tutte e sette le creature furono distrutte dal colpo.
    “Se questo è ciò che possono fare, allora non credo ci sia qualcosa da...” Arcadia non finì la frase: era riapparso l'AI indemoniato, col palo ancora infilzato addosso e con un pezzo di lamiera in mano, che scaglio contro il Danger Halley. Velocemente lo schivò, guardando allibito il Crest D.H.
    “Questo non è un AC... è un mostro!” esclamò, ricordando la furia con la quale Carbon lo aveva inseguito. Prese quindi i pali scheggiati e glieli scagliò addosso. L'AI non si mosse, ma pur essendo stato colpito da entrambi gli oggetti non mostrava segni di cedimento. Anzi, attivò tutte le armi in una volta, liberando una raffica di proiettili di artiglieria leggera e pesante allo stesso tempo.
    “ACCIDENTI!!” gridò Arcadia, cercando di togliersi dalla strada, presa di mira da tutti i colpi. Non riuscì però a schivare una granata, che lo buttò contro un auto. L'urto fu parecchio duro, e la gamba destra ne risentì parecchio dato che in quel colpo il colpo era stato più diretto.
    L'AC si avvicinò ad Arcadia, puntando la PIXIE2 (versione precedente della 3) contro Danger Halley. Egli però rimase immobile, cercando di dissimulare un momento di inattività dell'AC. Non appena l'AC fu vicino, Arcadia si rialzò, lo prese per un braccio e gli infilò la lama della laserblade LB2 in gola. Il colpo fu letale: potè sentire la tensione vitale del mech indemoniato arrestarsi di colpo, accasciandosi poi al suolo una volta che mollò la presa sul braccio.
    “Chi... chi ha combinato tutto questo?” si chiese Arcadia. Continuò a pensare, poi un dubbio gli balenò nella mente.
    “C'entra forse... Silent Hill... con tutto questo...?”
     
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  11. Vintovka
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    CAPITOLO DECIMO
    ORRORI A RITMO DI BASSI



    Mentre Arcadia pensava ad una possibile spiegazione a tutto quello che stava succedendo, si stava automaticamente incamminando verso la piazza. Ripensava a tutti gli indizi, a tutte le tracce che lasciavano intendere che qualunque cosa stesse accadendo non era certo cosa di tutti i giorni.
    Il suo pensiero si soffermò poi su Alicia, e gli partì una stretta allo stomaco. Stando a ciò che aveva trovato scritto, lei era a Silent Hill.
    La piazza era inverosimilmente deserta, coperta dalla nebbia e perfettamente immobile. I lampioni erano impolverati e un paio di essi erano stati sradicati e buttati giù. C'erano delle biciclette in giro, ma tutte rotte e arrugginite.
    “Sembra che sia passata un'epidemia da queste parti... fa impressione vedere questo posto ridotto così...” pensò Arcadia, per poi posare la sua attenzione sulla porta della parrocchia lì vicino. Era sbarrata da una gigantesca ascia, tipo quelle da esecuzione. La lama scura ma imponente era provata dal tempo, ma stranamente senza macchia. Il legno resistente del manico serrava il portone in modo formidabile. Arcadia si avvicinò e sbloccò la porta appropriandosi del temibile arnese.
    “Nessuno si accorgerà che è sparito...” pensò. Mentre diceva ciò, sentì un rumore provenire da poco distante. Qualcuno aveva sfondato un'altra porta della parrocchia, per poi intrufolarcisi dentro.
    “Che diamine...?” Arcadia si fiondò verso la sorgente del rumore per intercettare lo sconosciuto. Chiunque potesse sapere di più su quanto stava succedendo in città poteva aiutarlo, o almeno così pensava.
    L'interno della parrocchia era buio, come si aspettava. Una luce proveniva dal corridoio del piano terra, così decise di dare un'occhiata. Osservò che il pavimento era parecchio sporco, come se non fosse stato lavato da settimane. Vide anche una barella appoggiata ad un muro del corridoio.
    “Che ci fa una barella qui?” si chiese, pensando che logicamente le barelle stanno negli ospedali. All’improvviso un getto di luce lo prese di sorpresa. Quello che stupì Arcadia di piú era che la luce era blu-azzurrina. Si voltò per cercarne la sorgente, e vide una porta che conduceva probabilmente alla stanza della parrocchia dove i ragazzi erano soliti organizzare delle feste, trasformando il posto in una specie di mini-discoteca, con tanto di luci, bassi ultra-pompati, musica elettronica da disco con i pezzi piú recenti, e gli immancabili alcolici che tanto facevano gola ai suoi coetanei. Arcadia non aveva mai amato quel genere di feste: due volte soltanto ci era capitato, ed entrambe le volte si era ben guardato dal prender parte ai balli. Una di quelle volte, all’uscita, aveva pure rischiato di perdere la bici, perché un gruppetto di ragazzi si era appostato con l’intento di rubargliela (la loro scusa era che la bicicletta fosse in realtà di uno di loro).
    Per nulla turbato dagli eventi passati, comunque, il Raven decise di entrare lo stesso. La stanza era illuminata dai fari colorati, e le finestre erano tutte abbassate. La console era lì in piedi, polverosa come se gli ultimi festaioli avessero dimenticato di smontarla e portarsela via. Arcadia non aveva mai imparato a maneggiare un apparecchio del genere… l’unica cosa interessante di quelle feste, anche se fare il DJ non era il massimo che si aspettava (ma secondo lui era la parte piú divertente – meglio che stare sulla pista, si diceva). Si avvicinò alla tastiera, piena di pulsanti e levette, e poi levò lo sguardo sulla porta che dava all’angolo cottura. Un angolo in realtà usato per altro, dato che aveva sentito dire che spesso i ragazzi si facevano gli affari loro da quelle parti. Stava per aprire la porta, quando all’improvviso la musica partì dalla console. Un terribile rumore di bassi ad altissimo volume, mischiato ad un brano psichedelico, riempì l’aria.
    “Argh! Ma che… che cosa succede?” Arcadia si portò le mani alle orecchie (o per essere piú precisi le zone della testa dell’AC in corrispondenza delle orecchie umane – nonostante l’aspetto, egli percepiva gli stimoli esterni in maniera perfettamente analoga). “Cos’è questo frastuono?” Corse verso la console per cercare di abbassare il volume. Non trovando la levetta, intravide la spina, e con un calcio la staccò. Ma non successe nulla.
    “Diamine… questo è assurdo!” si disse, e poco dopo la musica lentamente si abbassò. Stava per aggiungere altro, quando all’improvviso la porta dell’angolo cottura si aprì. Ne uscirono fuori due figure vestite da infermiere e il volto gravemente sfigurato. Brandivano un bisturi e, nonostante il loro passo zoppicante, si dirigevano minacciose verso di lui.
    “Queste sono le stesse infermiere che sono state torturate nella scuola…” pensò lui. Poi puntò la pistola e urlò: “Mani in alto! Identificatevi… è un ordine!”
    Come si aspettava, le infermiere non indietreggiarono di un passo, continuando ad avvicinarsi. Una di esse provò a lanciarsi contro di lui, inciampando e finendo a terra. Arcadia velocemente ne approfittò e gli spezzo l’osso del collo con una pedata.
    “Fuori un… aaah!!” mentre rialzava lo sguardo, l’altra infermiera lo aveva colpito di striscio in volto col bisturi. Egli si riprese, puntò la pistola su di essa e gli sparò un colpo in fronte. Il mostro rimase fermo per un po’, come se nulla fosse successo, poi si accasciò al suolo.
    “Figlia di…” stava cominciando lui, quando altre tre infermiere comparvero, sempre dalla cucina.
    “Mannaggia, ce ne sono ancora.” Con la pistola alla mano mirò ad una di esse e sparò un paio di colpi su entrambe le gambe. La puntò poi contro un’altra… ma non successe nulla.
    “Dannazione! E’ scarica!” si accorse Arcadia, indietreggiando. La musica intanto continuava pulsante nelle sue orecchie. Una delle infermiere ancora in piedi gli lanciò il coltello che brandiva, ma egli lo evitò, facendolo finire contro il muro. Si fiondò quindi dietro la console per recuperarlo, e mentre l’infermiera disarmata si apprestava a scavalcarla, Arcadia si rialzò e la colpì in testa, penetrandone il cranio con tutta la lama. L’infermiera però si divincolava, e provò a strozzarlo.
    “Lasciami!” urlò, spaccando la testa del mostro mentre se ne liberava. Velocemente lanciò il coltello contro l’unica infermiera rimasta in piedi, colpendola alla gola.
    “E ora che faccio?” si chiedeva Arcadia, la console che sparava musica a tutto volume, e altre infermiere che entravano. “Questi… questi fanno per me.” disse, trovando dei pacchetti di munizioni per pistola. Anche se non aveva ben capito cosa ci facessero lì. Accese il processore dell’AC-Watch che si portava dietro, e diede un’occhiata a tutto ciò che aveva con sé. Si ricordò dell’ascia gigante che aveva trovato.
    “Eh, bella idea…” pensò. Mentre stava per equipaggiarla, la console stranamente ondeggiò, per poi finirgli addosso. Delle infermiere avevano spinto l’apparecchio contro di lui. Arcadia non si fece spaventare, e azionò l’Overboost. Il risultato fu che l’energia sprigionata dal nucleo dell’AC scaraventò la console contro le infermiere, trascinandole dall’altra parte della stanza. Parecchie di esse rimasero schiacciate. Egli ne approfittò quindi del momento di tentennamento delle restanti, e sferzò un colpo laterale al gruppo di mostri davanti a sé con l’ascia. Fu una strage: la gigantesca lama le spaccò a metà tutte senza pietà, come fossero state muri sottoposte all’azione distruttrice di una demolitrice usata per abbattere le costruzioni in disuso. Sembrava fosse tutto finito: delle infermiere indemoniate che avevano attaccato Arcadia, non una sola dava segni di vita.
    “Whew… questa volta è stata una faticaccia.” si disse, allontanandosi dalla stanza. “Questo posto non mi piace. Voglio uscire.” Mentre pensava ciò, vide una figura salire le scale.
    “Ehi! Aspetta!” urlò, correndo di sopra. Un’altra luce, stavolta normale, illuminava il corridoio. Un’altra stanza. Quella dove tutti coloro che non amavano troppo le festicciole del piano terra potevano starsene tranquilli. Arcadia sfondò la porta: “Fermi tutti!” urlò, come di solito faceva durante un’operazione standard. La stanza però era vuota, salvò un foglio sulla scrivania.
    <<e’ stata tutta colpa mia. Una parte di me ci credeva ancora… però ti giuro, io volevo ripartire daccapo. Eri troppo importante per me. Ma cosa potevo fare? Ogni volta che ti vedevo, tutto dentro di me si arrestava. Dovevo convincermi che non eri piú quella di una volta. L’Alicia che conoscevo è morta. Fa parte del passato. E sì, anche io sono morto. Tutti moriamo, perché il tempo ci cambia. Quindi, nessuno di noi è piú lo stesso. Quello che eravamo un tempo… non esiste piú. Morto e sepolto nel passato.
    Non ce la faccio piú… neanche da rinato la vita mi pare utile… a cosa servo? Cosa me ne faccio di un umanoide di latta? Cosa sono? Uno strumento di morte… ecco cosa sono…
    Ma ora basta… non ucciderò piú… l‘ultimo a lasciare questo mondo sarò io…>>
    “E’… orribile…” pensò Arcadia. “Assurdo… chi ha scritto questo?” Egli rileggeva tutto, specie la parte in cui si diceva che Alicia fosse morta. Piú rileggeva, piú pensava che qualcuno dovesse aver dato i numeri.
    “Forse avresti dovuto farlo tu.” tuonò una voce. Preso di sorpresa, si voltò subito. “Chi sei??”
    “Non dovresti forse salire e vedere tu stesso?” rispose la voce. Arcadia cercò di individuarne la posizione, e ipotizzò che fosse proprio al piano di sopra. Tenendo il foglio con sé, nella speranza di riporlo tra le sue note personali, corse in fretta al piano superiore. A differenza degli altri, era buio.
    C’erano altre scale, ma non se ne curò, correndo nel corridoio. Guardò per bene, e poi sentì la voce che gli disse: “Da questa parte.” Contemporaneamente, vide la fine del corridoio aprirsi, tipo porte multiple di ferro. Arcadia si incamminò verso di esse, notando l’alone rossastro dell’ambiente oltre l’apertura. Entrato nel corridoio secondario, sentì che il pavimento era diverso. Guardò sotto di lui… e vide che era pietra grezza, con dei pezzi di carne a terra.
    “Argh!! Chi ha combinato questo schifo???” esclamò. Si voltò per tornare indietro… ma sobbalzò: le porte erano state sostituite da due grandi labbra sanguinanti che si stavano richiudendo. In contemporanea, suonò la sirena.
    “No, ancora una volta no!” urlò lui. “Cosa vuoi da me?? Perché non mi lasci andare???” Non avendo altra alternativa, cominciò a correre di sotto, a testa bassa. Prima trovava il modo per uscire fuori da lì, meglio era per lui. Ormai aveva capito cosa stava succedendo: Silent Hill aveva invaso il suo mondo. Quello che non aveva ancora compreso era il perché.
     
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  12. Vintovka
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    CAPITOLO UNDICESIMO
    PRELUDIO CON PIZZICATO DI KARASAWA



    Mentre attorno a lui la parrocchia si faceva scura, Arcadia correva a rotta di collo con la torcia accesa giù per le scale. Ogni tanto delle infermiere spuntavano fuori, ma lui le inchiodava al muro con un calcio, finendo spesso per sfondare il torace di esse (essendo il piede del modello di gambe COUGAR2 piú aerodinamico e quindi un po’ appuntito). Non avendo tempo di tirare fuori altre armi, si faceva strada a calci e spari di pistola, senza guardare indietro se i mostri si rialzavano o no. Correndo, giunse al piano terra, per un corridoio lungo. La strada era sbarrata da un gruppo di infermiere. Si guardò dietro, ma non vedeva altre vie per uscire. La sua salvezza era dietro tutti quei mostri. C’era un solo modo per oltrepassarle, quindi caricò l’Overboost.
    “Dannazione, fatemi strada!” urlò Arcadia, lanciandosi a tutta velocità per superare il blocco, e così fu: allargando le braccia per aumentare la superficie di impatto, gran parte di loro vennero buttate giù dall’impatto, e mentre le altre si giravano per inseguirlo lui era arrivato già alla porta che conduceva fuori. Provò quindi ad aprirla, ma il pesante portone era sbarrato.
    “Questa non ci voleva!” pensò. “Dovrò abbattere questo palo…” si disse, osservando una trave di legno che serrava le due ante saldamente. Tirò quindi fuori l’ascia gigante e cominciò a sferzare vari colpi. Stranamente, la trave resisteva: forse il legno si era indurito.
    Era quasi riuscito a sbloccare la porta, quando da dietro le infermiere rimaste in piedi gli si lanciarono addosso. Erano in cinque, e lo spinsero contro il muro: nella ressa Arcadia lasciò andare l’ascia. Non vedeva nulla con tutti quei mostri davanti, cercava di divincolarsi per evitare i continui colpi dei bisturi. Alla fine due infermiere lo inchiodarono al muro, mentre le altre tre si avvicinarono brandendo le loro armi minacciosamente.
    Proprio quando pensava che un gruppo di mostri lo avrebbe sopraffatto, da una parte del corridoio partirono lampi azzurri ad alta energia. Uno di essi colpì l’infermiera che lo bloccava a destra: colpendola all’addome, saltò in aria. Le altre rimasero come allibite. Arcadia non perse tempo, e schivando un secondo lampo che sbriciolò la testa di un’altra infermiera si gettò a riprendere l’ascia. Una di esse se ne accorse, e si girò per inseguirlo.
    “Vai al diavolo!” urlò lui, e sferzò un colpo dall’alto che la tranciò in due. Altri lampi azzurri colpirono e abbatterono le altre due infermiere. Arcadia si girò verso il punto dal quale, pensava lui, erano partiti i colpi. Pensava ad una sola possibile soluzione…
    “KARASAWA…” un nome che sapeva perfettamente di cos’era. Un modello di fucile a energia che faceva impallidire chiunque: pochi riuscivano a sfruttare appieno il devastante potenziale di quel congegno. Lui non aveva mai usato un’arma del genere, dato il suo enorme peso.
    “Ehi! Chi sei?” urlò al punto oscuro, cercando di trovare un modo per farlo uscire allo scoperto. Per qualche secondo non accadde nulla, poi all’improvviso partì una scarica di lampi azzurri verso di lui.
    “Dannazione!!” esclamò, pensando che in un secondo sarebbe finito nei guai. Invece, per sua sorpresa, i colpi annientarono il gigantesco portone, rivelando quindi ciò che stava succedendo fuori. Arcadia si voltò quindi verso l’esterno… uno spettacolo allucinante: tutta la piazza si stava… sgretolando: minuscoli pezzi si accartocciavano e svolazzavano via, come della pittura secca e vecchia che si stacca dal legno. Un terribile fruscio riempiva l’aria, e la vista era in buona parte ostacolata da questi pezzi che man mano aumentavano e si dirigevano verso l’alto. A poco a poco la piazza stava scomparendo, e sotto di essa si intravedeva già un’altra dimensione, di cui ora Arcadia ricordava chiaramente come era solito definirla: l’Altro Mondo, l’Otherworld.
    “Questa storia deve finire…” si disse. “Qualcuno, o qualcosa, ha portato quest’inferno qua… io pensavo che certi eventi erano limitati solo alla città di Silent Hill, ma evidentemente mi sbagliavo.”
    Fuori intanto l’Altra Dimensione aveva preso il posto di quella normale. Al centro della piazza c’era una pedana circolare. Qualcosa, secondo Arcadia, si stava nascondendo lì sotto.
    “Avrei dovuto capirlo dagli episodi piú recenti… Portland, South Ashfield…” ma si interruppe: questi ultimi due nomi li aveva pronunciati senza ricordarseli in effetti. Quel blocco alla memoria si stava sciogliendo.
    “…quella non è una città, ma un’entità indipendente.” concluse. “Come potrebbe essere possibile tutto ciò altrimenti?” Mentre osservava il terribile panorama, alla fine gli venne in mente una domanda: “Ma comunque per arrivare fino a qui ci sarà voluto un modo… come ha fatto???”
    E proprio mentre si chiedeva ciò, la pedana cominciò ad alzarsi. Un pilone di pietra, segnato dal tempo e, a giudicare dal sangue su di esso, dalle numerose esecuzioni, faceva la sua comparsa. Arrivato a un certo punto, un pilone piú stretto cominciò a salire da esso, fino ad arrestarsi in un altro punto piú in alto. Poi un terzo cominciò ad uscire fuori, per poi fermarsi di colpo. Sembrava una specie di obelisco, dal quale in cima qualcuno stava uscendo fuori. Era un altro AC, nero lucido, con due lanciagranate montati sopra, e sulle braccia equipaggiava una Gatling lunga e stretta e una spada laser che Arcadia riconobbe come la temuta MOONLIGHT. Non appena il mech nero fece il suo ingresso, una luce rossa si accese sul suo volto.
    Neith Necris guardava fisso il Danger Halley dalla cima dell’obelisco.
     
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  13. Vintovka
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    CAPITOLO DODICESIMO
    NON TORNARE INDIETRO



    “Tu!” Arcadia era incredulo. C’era un pilota di ACs dietro a tutto questo? “Come diamine… è impossibile!!”
    “Tu credi che sia impossibile?” gli rispose Neith di rimando, con un tono indifferente. “Si vede allora che non puoi comprendere.”
    “No, io ho capito tutto invece! Ma cosa non capisco invece è come…”
    “Sì sì, la so questa storia, persino mio padre pensava che io fossi pazzo. Pensava che le mie parole di salvezza fossero farneticazioni! FARNETICAZIONI!” L'ultima parola la urlò con tono ferito. “Ti rendi conto? Ma, come puoi ben vedere, una persona che dedica anima e corpo a Samael può riuscire in tutto.”
    “Samael? Cioè… tu hai portato quella setta satanica QUI?” Arcadia ora era allibito. “Non ti rendi conto di cosa hai fatto?”
    “Certo che lo so! Pensi che ne staremmo discutendo se non lo sapessi? Io mi sono impegnato fino al limite delle mie possibilità per riuscire nel mio intento. Ho fatto persino stampare sul mio AC il famosissimo Halo come emblema per sigillare ancora di più la mia devozione al Dio della setta. Tutti vedranno il compimento della mia volontà!”
    “Tu sei pazzo.” commentò Arcadia, che non voleva credere a quanto stava ascoltando.
    “No, sei TU che sei un imbecille! Ancora non capisci? Il Dio che voi miseri umani venerate non vi aiuterà quando il discendente di Samael arriverà sulla Terra e caccerà via la vostra stirpe! Assisterete alla venuta di un discendente che ha dato tutto per farlo risorgere, e ottenere così da lui stesso l’eredità del Dio di Silent Hill.”
    “E chi sarebbe questo erede?”
    Neith lo fissò, con aria da rimprovero. “Tu pretendi di sapere troppo… sei un eretico ai miei occhi, e gli eretici se conoscono troppe cose poi diventano pericolosi per i suoi seguaci, e per Dio stesso.”
    “Eretico? Ora esageri! Ma chi ti credi di essere? Ti rendi conto che stai distruggendo un’intera città con le tue folli azioni?”
    Neith lo fissò. “E’ proprio questo che fa di te un eretico. Tu non vedi ciò che io faccio, e ancor meno comprendi. Tu non sai, tu non conosci, quindi non puoi giudicare le mie azioni.”
    “Piantala di affidarti alle frasi fatte, e vattene da questa città!” Arcadia alzò la mitraglietta verso Neith. “Mi hai sentito? Alza i tacchi, e sparisci.” Il suo tono perentorio non lasciava spazio a contrattazioni. Ne aveva avuto abbastanza, e se quell'essere avesse reagito male, lo avrebbe attaccato.
    “Folle.” mormorò Neith. Poi azionò Overboost e tutte le armi allo stesso tempo, e si gettò contro Arcadia, che riuscì appena in tempo a evitarlo e si girò per fronteggiare il suo avversario. Un alone di fuoco circondava l’AC nero lucido di morte, mentre la luce rossa fissava il Danger Halley.
    “Guardami bene in volto, tu che credi di avere capacità di giudizio ma che non sai giudicare nemmeno te stesso. Sarò l’ultimo essere vivente che vedrai, prima di cedere alla volontà di Dio. Puoi aver sconfitto i Pulverizer ed essere diventato un Dominant, ma qui a Silent Hill anche gli uomini più grandi non valgono niente senza la fede!” Dette queste parole, Neith aprì il fuoco. Un turbine di colpi Gatling e di palle di fuoco volò in direzione di Arcadia, che piegò in ritirata e si fece ampio spazio per effettuare la contromanovra.
    “Non puoi veramente fare di meglio? La tua follia ti sta accecando, Neith!” urlò egli di rimando. “L'abbaglio che chiami fede ti impedisce di vedere, e di conseguenza spari a vuoto!” Puntò il lanciagranate verso Neith, ma prima che potesse sparargli addosso egli scomparve. E mentre Arcadia si guardava intorno, esterrefatto per esserselo fatto sfuggire in quel modo, ecco che riapparve dietro di lui. Non ebbe il tempo di voltarsi che l’AC nero lo prese con entrambe le mani, lo sollevò e lo scaraventò a terra. Provò a rialzarsi, ma Neith fu piú svelto, e gli lanciò addosso un paio di granate, intercettando la sua manovra. Arcadia si ritrovò buttato qualche metro piú in là.
    “Dannazione! Si mette male, TROPPO male!” si ripeteva, controllando lo status del Danger Halley. La corazza era danneggiata, e la gamba destra aveva riportato seri danni alla zona del ginocchio. Gli era impossibile tener testa in quelle condizioni al suo avversario.
    “Non è ancora finita…” Arcadia aspettava che Neith si avvicinasse: e in effetti così accadde, l’AC nero brandiva la MOONLIGHT pronta all’azione. Quando fu abbastanza vicino, non tardò a contrattaccare, spingendo le gambe di Neith con una pedata, facendolo inciampare.
    “Ora!” Con una veloce mossa, affondò la lama della sua spada laser in testa all’AC Divine.
    “Inutile…” mormorò esso, strattonando il Danger Halley a terra. Ora i due mech si fronteggiavano con lo sguardo.
    “Perché ti ostini a combattere? Posso finirti quando voglio, eppure ti sto lasciando l’opportunità di arrenderti. Noi seguaci siamo meno duri con chi si piega e abbraccia la nostra fede.”
    “Mai! La tua folle convinzione ti sta trasformando in un mostro!”
    Neith lo guardò sprezzante, poi rise. “Mostro? Tu chiami mostro il più fervido seguace che Samael abbia mai avuto?”
    “Per me rimani un mostro! La tua è convinzione di un erede di un Dio malefico che dovrebbe redimere, ma dalla tua descrizione porterà solo distruzione!”
    “Sono IO l’erede, sciocco! Ecco perché non riuscirai a fermarmi!”
    “Provaci, se ti riesce, ma sarai solo un’altra tacca sulla mia lista!” Arcadia si buttò addosso a lui, cercando di finirlo con la spada. Neith contrappose la sua, colpendolo con inaudita forza. Potè vedere la lama della LB2 letteralmente andare in pezzi di fronte a quella blu di Divine, per poi ritrovarsi lanciato a metri di distanza con un enorme taglio addosso. Arcadia cercò di rialzarsi, ma Neith lo afferrò e gli tirò una gomitata al petto. Il dolore fu terribile: aveva sentito qualcuna delle sue costole spezzarsi come grissini. Rimase a terra, con le gambe anch'esse incapaci di rispondere, pieno di ferite aperte, piegato in due. Il torace urlava dolore, e gli toglieva il fiato. Le lacrime gli impedivano di vedere. Era solo questione di tempo, e quella bestia lo avrebbe finito.
    Dal nulla però tornarono a volare in aria i lampi blu di una KARASAWA. Tutti in direzione di Neith, che sorpreso e non preparato li ricevette in pieno. Una decina di colpi ad altissima energia distrussero Divine, riducendo l’AC e il suo pilota in un ammasso di ferraglia nera fumante e macchiata di sangue. Neith cadde a terra, morto sul colpo. L’Halo sulla sua spalla sinistra pulsava di rabbia, quella rabbia che non era riuscito ad esprimere per via di quel fatale colpo.
    “Arcadia!!” urlò una voce, e lui sapeva di chi era. Si girò, e un mech color grigio argentato, con in mano la gigantesca arma laser e una luce bianca in volto, lo fissava. Fracture era finalmente arrivato, e con esso anche Alicia.
    “Arcadia, tutto apposto? Ti avevo detto di tornare a casa.” Fracture intanto si stava disattivando, facendo ricomparire il corpo e il volto di Alicia Cheryl, con gli abiti ancora sgualciti e recanti le tracce di altri combattimenti.
    “E' quello che ho fatto! Ma è stato tutto inutile, era una trappola!" rispose lui, ancora ansimante. "Mi hanno buttato dentro Silent Hill! Anzi… ci hanno buttato.”
    “Non importa adesso.” La ragazza si avvicinò a lui. “Santo cielo, sei ferito! Cosa diamine ti è successo?”
    “Alicia, ascolta, io non so da dove iniziare…”
    “Iniziare cosa?”
    Arcadia tirò un lungo respiro. “Promettimi che starai ad ascoltarmi fino alla fine, è terribilmente importante.” Cominciò dunque a raccontarle della lettera che aveva trovato, che parlava di quella parte di lui che ancora non voleva arrendersi all’evidenza, quella stessa parte che lui aveva faticosamente relegato all’oblio. Stando a quanto Arcadia diceva di aver capito, si era manifestata attraverso Silent Hill per prendersi la rivincita su di lui. Poi tornò indietro con la memoria al liceo, quando aveva erroneamente pensato che Alicia fosse cambiata in peggio, al punto da abbandonarlo. Si interruppe, mentre un senso di colpa gli faceva abbassare lo sguardo a terra. Poi disse:
    “Non avrei mai dovuto pensare ciò. Sono stato uno stupido, non avrei…”
    “Lascia perdere, Arcadia. E' acqua passata ormai.”
    “No… non ci credo.” Egli continuava a non guardarla, temendo di incrociare il suo sguardo con quello di lei. “Ascolta, io…”
    “Non fa niente… sul serio, guarda che è tutto passato.” Alicia si era avvicinata abbastanza per cercare di farlo rialzare. “Tu vuoi ricominciare da zero, no?”
    “Beh… sì, esattamente. Ma quello che…”
    “Quello che è successo non conta. Lascia che il passato resti passato, ora hai un’altra possibilità. Devi solo approfittarne.”
    “Ma come? Ho fatto tanti di quegli stupidi sbagli, mi sento troppo in colpa…”
    “Ma non è questo il punto. Se non vincerai i tuoi sensi di colpa e non lascerai il passato alle spalle, esso tornerà sempre a cercarti. Ciò che è appena successo, e che hai detto di aver appreso, è quanto ti dovrebbe servire per capire dove hai sbagliato e come puoi rimediarvi. Silent Hill ti ha messo di fronte ai tuoi problemi, l’hai detto tu stesso.”
    “Ma forse non torneremo mai amici come prima…”
    Alicia lo guardò. “Questo lo so, e non posso farci niente. Mi dispiace dirtelo, ma le cose vanno così. Forse il legame si rafforzerà, forse no. Le persone cambiano, Arcadia, e noi non facciamo eccezione. Se non lo accetti, sarai sempre prigioniero della Silent Hill che c’è in te. Non insistere nel guardarti indietro, finirai solo per ripetere i tuoi sbagli.” Lei lo guardava aria serena e compassionevole, mentre lui continuava a non guardarla. “Sai, ho avuto modo di rifletterci, e ho capito che ci tieni alla nostra amicizia. Mi fa piacere saperlo, ma proprio per far sì che sia un legame positivo il nostro, ti devo chiedere di non tornare indietro.”
    Arcadia finalmente la guardò. Si sentiva davvero male. Non riusciva a credere di aver preso la direzione sbagliata per tutto questo tempo senza neanche essersene accorto. Aveva sempre pensato di aver agito bene, e invece in neanche mezza giornata le sue convinzioni erano state smontate come se fossero di carta. Non solo era rimasto un debole, ma aveva anche peccato di arroganza. Aveva sempre odiato le persone che si credevano migliori delle altre, e adesso odiava anche sé stesso.
    “Aiutami!” fu l’unica cosa che disse, prima di scoppiare a piangere a dirotto.
    “Arcadia!” Alicia lo sollevò, cercando di sostenerlo. “Arcadia, non devi abbatterti… fatti forza, dai! Alzati!”
    Arcadia continuava a non rispondere, cercando passivamente di liberarsi dalla presa della ragazza.
    “Arcadia…” Alicia non sapeva che fare, e lasciò che tornasse a terra. “Dio mio, Arcadia...”
    “STUPIDO!” urlò lui. “Stupido... imbecille... che non sei altro...” La sua voce tremava, la rabbia era tanto intensa quanto la vergogna.”
    Alicia riprovò a parlargli, ma non ottenne nessun risultato. “Va bene.” gli disse. “Quando ti sarai sfogato, ti aiuterò a tornare in piedi.”
    Arcadia si voltò verso di lei. Era una fortuna che l'armatura non faceva intravedere la sua espressione imbarazzata. “S-Scusami.” rispose.
    “Non fa niente.” disse lei, sospirando. “Ce la fai da solo o pensi di aver bisogno di una mano?”
    “La gamba… temo c-che quel maledetto me l’abbia f-f-fatta a pezzi…”
    “Ok, Arcadia, reggiti su di me, ce la fai?” Poco a poco Alicia riuscì finalmente a farlo rialzare. Involontariamente fece una leggera pressione sul torace di lui, che si fece scappare un gemito. “Diamine, sei ridotto malissimo! Ma chi era quello?”
    “E’ una bestia! Neanche Satana lo vorrebbe!” urlò di rimando, la voce che ancora tremava.
    “Non riesco a credere che un essere del genere possa averti ridotto così…”
    “Evidentemente... n-non ero pronto...”
    “Arcadia! Tu sei un eccezionale combattente!” Alicia era sinceramente stupita. “Chi diavolo poteva essere per averti ridotto in questo stato?”
    “Ascolta, Alicia... N-Non ce la farò da solo…”
    “A fare cosa?”
    “A ricominciare. C-Certe battaglie non si possono vincere da soli...”
    “Cercherò di aiutarti, Arcadia, ma ricorda che devi essere tu a ripartire da zero. Se non ce la fai tu, non potrò aiutarti fino alla fine. Deve venire da te.”
    Arcadia non rispose. Piano piano si stava calmando, ma lo sguardo era ancora basso. Aveva ragione. Non poteva continuare ad aggrapparsi agli altri. Questo era un suo problema, non di Alicia.
    A un tratto tornò il fruscio, e una miriade di pezzi volò dal cielo per ricoprire l’Otherworld.
    “Oddio, cosa sono?” chiese Alicia. Evidentemente non aveva mai visto un cambio di dimensione.
    “E’ la nostra città che sta tornando… le dimensioni si stanno alternando!”
    “Cosa? Che vuol dire?”
    “Che dobbiamo cercare un riparo! Forza, dammi una mano, non ce la faccio a correre!”
    “Ok, reggiti forte allora!” I due si ripararono nel negozio più vicino, sperando che non ci fosse dentro nessuno, o niente. Era buio, e Arcadia non riusciva a riaccendere la torcia.
    “Oh diamine, niente luce. Speriamo che finisca presto.”
    “Fa ancora male Arcadia?” chiese Alicia.
    “Oh se fa ancora male… non me la sento quasi più. Ci vorrà molto perché si riprenda.”
    Fuori intanto non si vedeva niente, tutti i pezzi che volavano confusamente. Ci sarebbe voluto un po’ perché Mestre fosse tornata.
     
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  14. Vintovka
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    CAPITOLO TREDICESIMO
    LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA



    Quando Arcadia ed Alicia uscirono dal negozio, la luce del sole li illuminò. Non era la Mestre nebbiosa nella quale Arcadia era rimasto intrappolato per tutto quel tempo, e inoltre c’era gente. Molte persone si voltarono per guardare i due ragazzi, e una persona urlò: “Chiamate un’ambulanza, c’è una persona ferita!” Alicia si voltò verso il suo compagno, e vide che il Danger Halley era sparito, e Arcadia era finalmente uscito dal suo AC, però era inerte. Il ragazzo era svenuto, probabilmente dalle troppe ferite subite. Mentre la gente accorreva, Alicia lo guardava in preda al panico, mentre dalla folla si faceva strada un medico.

    Arcadia aprì gli occhi. Era disteso su un letto, e non si sentiva le gambe. Il braccio ferito faceva ancora male. Provò ad alzarsi, ma rinunciò, era troppo stanco.
    “Non ti sforzare, Arcadia.” Si voltò, e vide Alicia alla sua sinistra, con un paio di cerotti in volto.
    “Dove siamo?” chiese.
    “Siamo in ospedale, non vedi? Sei svenuto non appena siamo usciti dal negozio, sono riuscita a chiamare un’ambulanza. Eri ridotto malissimo, non avrei mai immaginato che un danno così pesante a Danger Halley potesse ripercuotersi su di te in questo modo…”
    “E’ tutto normale… prima di uscire da un AC il pilota deve assicurarsi di rimetterlo in sesto quanto basta.”
    “Arcadia… ma adesso?”
    “Adesso cosa?”
    “E’ morto? Voglio dire… quell’uomo, Neith…”
    “Penso di sì….”
    “Puoi spiegarmi una cosa?”
    “Huh? Non ho capito… scusami, ho dolori ovunque, ho la morte in corpo…”
    “Volevo che tu mi spiegassi una cosa… ha a che fare con il dolore che provi ora…”
    “Stai parlando dei danni che ho subito, immagino.”
    “Ehm… diciamo che è così.”
    “Vedi… c’è differenza tra una persona e un AC. Un essere umano non può sopportare molte ferite, e dopo un po’ finisce per perdere sangue, subire emorragie, compromissioni agli organi, oppure addirittura dei colpi fatali. Un AC può rimanere senza braccia e senza testa, ma finché il pilota è vivo continuerà a combattere fino a quando non salta in aria. E’ una macchina da guerra, Alicia. Io sono una macchina da guerra…”
    “No!”
    “Sì invece. Grazie alla tecnologia di cui dispongo posso sostituire a me stesso il Danger Halley, che essendo un robot è in grado di sopportare molto più dolore e danni di quanti io sarei capace, ma c’è una pecca in tutto questo. Pur essendo sostituito da un AC, sono sempre io che mi muovo, che salto, che combatto, che subisco colpi. Col risultato che quando disattivo l’Armored Core…”
    “…tutte le ferite subite si ripercuotono su di te.”
    “E tutte insieme. E’ come prendersi addosso una decina di granate a frammentazione più piccole. Non ti uccidono subito, ma quello che ti fanno ti fa passare la voglia di combattere.”
    “Immagino. E allora perché sei diventato un Raven?”
    “Questi sono affari miei, se non ti dispiace.”
    “Ma Arcadia!”
    “Senti… non ne voglio parlare ora…”
    “C’è qualcosa che non va? Pensavo avessimo fatto pace.”
    “Non ho mai detto nulla di tutto questo.”
    “Ma…”
    “Aspetta. Non ho nemmeno detto che ce l’ho con te. Se fossi ancora infuriato con te, ti avrei allontanato. Ma dentro di me sento che ho ancora bisogno di te.”
    “Cosa intendi?”
    “Non fraintendermi. Ho detto che voglio ricominciare da zero con te, mettere una pietra sopra tutto quello che c’è stato tra di noi. Che poi, fosse stato almeno bello da ricordare…”
    “Ah, ho capito. Intendi quando abbiamo litigato?”
    “Sì. Purtroppo ho commesso un po’ di errori con te. Ma non si ripeterà più, promesso. Più che altro, vedi come te lo dico, ho il presentimento che quello che abbiamo visto non sia tutto.”
    “Come? Neith è morto!”
    “Lui sì… ma tutto il resto?”
    “Il resto cosa?”
    “Sto parlando di Silent Hill, dannazione!”
    Un’infermiera passò di lì, e chiese: “Tutto a posto?”
    “Uh, sì sì, tutto ok. Solo un po’ di dolore…” rispose Arcadia. L’infermiera li guardò e poi se ne andò.
    Alicia riprese: “Come faremo a liberarcene?”
    “Non chiedermi come… ma se si ripresenterà il problema dovremo affrontarlo.”
    “Non penso sia difficile.”
    “Tu lo credi… ma stai attenta, Silent Hill è pericolosa. Non è mai uguale. Cambia a seconda delle persone.”
    “Questo lo so… ma vuoi dire che potrebbe attaccare anche me?”
    “Certo che sì, per questo dico che dobbiamo restare uniti. Anche se non possiamo certo confonderla.”
    “Arcadia…” Alicia si avvicinò e gli prese la mano destra. “Hai tutto il mio appoggio.”

    Notte fonda, Arcadia era profondamente addormentato. L’ospedale era buio, solo alcune luci accese. All’improvviso il ragazzo si alzò di scatto urlando: “LASCIALA STARE!!!!” Per lo sforzo la schiena gli bruciò di dolore, e si ridistese. Ma notò che qualcosa non andava… all’altezza dei gomiti e delle gambe.
    “Cosa diamine…?” Accese la luce, e si guardò le braccia… erano arancioni e grigie, e il metallo prendeva il posto della carne e dei vestiti.
    “Oh no! No, cosa succede??? Fermati! FERMATI!!!” Aveva intuito subito che qualcosa non andava, il congegno di attivazione dell’Armored Core si era attivato da solo, e non si arrestava. Saltò giù dal letto, inconsapevole di tutto se non del fatto che stava tornando prigioniero del suo stesso Danger Halley. In breve tempo il processo era stato completato, e ora il robot si guardava allo specchio del bagno con aria afflitta.
    “Impossibile… questa è opera di un demonio…” Arcadia stava cercando di trovare una soluzione, e pensò che chiamare Alicia era l’unica possibile. “Questo è segno che sta tornando… Silent Hill…”
    Aveva appena finito di pensare quelle parole, che sentì rumori di oggetti che si rompevano. Fortissimi stridii di lame che strusciano sulle mura, tonfi di asce e di coltelli che tranciano la carne di chissà quali esseri viventi, se di esseri viventi si può parlare, urla disumane, di colpo l’ospedale si era riempito di creature, ma non era esattamente quello che Arcadia si sarebbe aspettato. Uscì fuori dal bagno, e subito un’infermiera demone lo prese per un braccio e cercò di pugnalarlo.
    “Ah, vattene via!!!” urlò lui, ma il mostro fu più veloce, e gli piantò la siringa che brandiva sul petto. Non appena l’ago si conficcò nel metallo (cosa che lasciò il Raven molto scosso, dato che in teoria era impossibile che potesse avvenire), una scarica elettrica fulminò la creatura all’istante, che cadde a terra carbonizzata.
    “Oddiosanto…” Arcadia non poteva credere a quello che aveva visto. Si accorse sull’HUD che la riserva di energia si era dimezzata, sebbene si rigenerasse costantemente. “Forse posso usare questo piccolo inconveniente a mio vantaggio.” A quel punto si mise a correre a più non posso, scansando mostri e saltando cadaveri di esseri indistinti mentre cercava l’uscita. Sfondò la porta col gomito, cadendo sullo sportello di fianco. Si guardò dietro, e vide che i mostri erano spariti. Non ce n’era più traccia.
    “Questo non può succedere… non di nuovo. Devo trovare Alicia, da solo non ce la farò mai.” E detto questo corse. Il cuore gli batteva forte… ma non sapeva per chi dei due si stava preoccupando maggiormente. Se per lui… o per lei.
     
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  15. Vintovka
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    CAPITOLO QUATTORDICESIMO
    SAETTE AZZURRE NEL CIELO



    Non c’era anima viva in strada, essere umano o animale che fosse, e la nebbia e la polvere avevano ancora una volta preso Mestre sotto la loro morsa. Un senso di vuoto si percepiva ovunque, e di fronte a questo panorama Arcadia non sapeva cosa fare. Non c’era nessuno a cui chiedere aiuto, anche se nelle condizioni in cui si trovata avrebbe potuto resistere anche da solo. Ma non avrebbe potuto tenere duro per sempre: ci doveva essere una via d’uscita da quell’inferno da qualche parte, ed era proprio quella che egli stava cercando.
    Non aveva fatto altro che correre, Arcadia, e in una decina di minuti era arrivato a un incrocio. Se lo ricordava bene perché era enorme. Tuttavia, sapeva che era ancora distante. Se voleva trovare una via d’uscita da quella situazione, aveva bisogno di Alicia, che era l’unica persona che sapeva degli orrori che si celavano nel buio oltre che averli vissuti con lui. Arcadia aveva quindi pensato di dirigersi verso il negozio della nonna della ragazza, dove quest’ultima era solita passare spesso. Istintivamente guardò l’orologio: erano le tre del pomeriggio. Lasciando da parte il fatto che la sua percezione del tempo si era distorta per via di tutti quei casini, questo significava che Alicia poteva essere già lì, quindi riprese a correre più veloce che poté.
    Ad un certo punto, proprio mentre aveva lasciato l’incrocio e si stava dirigendo verso un’altra strada principale, l’asfalto di fronte a lui si spaccò violentemente, esplodendo in mille pezzi. Arcadia fu colpito in fronte da una pietra grande quanto la sua testa e cadde a terra. Un fastidioso buzzer nella CPU del Danger Halley segnalò un’anomalia al livello della testa H69S codice arancione: aveva riportato seri danni, e adesso il radar di bordo era saltato.
    Si stava rialzando, quando un’altra scossa fece tremare la terra, e si sentì un suono acuto che spaccò i vetri delle auto circostanti, col risultato che a quest’ultimo si aggiunsero anche gli allarmi antifurto delle vetture danneggiate. Poi dalla gigantesca spaccatura emerse una creatura vermiforme gigantesca… un altro Spitter, identico a quello della scuola.
    “Oh no, non ci penso proprio a stare qua.” Dicendo ciò, Arcadia voltò le spalle al mostro e corse via, ma non fu abbastanza veloce: il mostro lo afferrò con i denti e lo lanciò sul muro di un edificio lì intorno. Riuscì all’ultimo momento a reagire, attutendo l’impatto e saltando giù. Ora aveva il mostro in vista, e stava per prepararsi all’inevitabile scontro, dato che la creatura non l’avrebbe fatto fuggire… quando accadde un evento inaspettato. Da dietro lo Spitter un altro robot fece la sua comparsa, e con un taglio netto decapitò la creatura. Ad Arcadia saltò il cuore in gola, quel robot aveva un paio di lame azzurre. E quando la testa del mostro cadde a terra, poté vedere i suoi timori confermati: un robot color ruggine, con bagliori azzurri e un ronzio inquietante stava minaccioso davanti a lui. Era un Pulverizer.
    “Impossibile… ero convinto che non esistessero più!!” Non poteva credere ai suoi occhi, quella bestia infernale era ancora viva, se si può dire vivo un robot senza pilota.
    A quel punto il Pulverizer, anziché attaccare, si alzò in aria e con un rapido movimento si allontanò, sparendo in breve tempo dalla vista di Arcadia, che rimase a guardare, almeno fino a quando un altro rumore non colse la sua attenzione. Proveniva dalla strada che voleva raggiungere, e decise quindi di affrettare il passo.
    Arrivò sul posto col fiatone, ma di movimento nessuna traccia. Sembrava fosse successo un macello, a giudicare dalle vetrine rotte e da alcuni lampioni strappati dal suolo, ma non c’era nessuno.
    “Eppure ero sicuro di aver sentito qualcosa…” pensò tra sé e sé. Si diresse verso un negozio lì vicino, pieno di bambole e pupazzi fatti a pezzi. Batuffoli di cotone impregnati di sangue e omini impiccati erano esposti dietro i vetri incrinati. Stava osservando quello strano scenario quando qualcuno gli mise una mano sulla spalla. Si girò di scatto sfoderando in un attimo la pistola e puntandola in avanti.
    “Alicia??” La ragazza non si aspettava questa reazione, ed era rimasta un po’ sorpresa. Per contro, Arcadia rimise la pistola nella fodera in fretta, consapevole di aver agito un po’ di impulso. “Non sapevo che stavi venendo qui…”
    “Veramente non stavo venendo qui, ti stavo cercando ma… non avevo la più pallida idea di dove tu fossi. Ti ho cercato in ospedale, ma era tutto sottosopra… e quando ho visto che eri sparito, mi è venuto un colpo. Ma… sei ferito! Cos’hai in testa?”
    “Lascia perdere, ho avuto un contrattempo. Tu stai bene?”
    “A parte il fatto che ho molta paura, direi quasi.”
    “Ti stavo cercando anche io, Alicia…”
    “Ah sì?”
    “Sì, e ora ti spiego…”
    “Mi pareva ci fossimo detti tutto…”
    “Non esattamente! Vedi…”
    “Arcadia, ti ricordi quello che…?”
    “Se aspetti un attimo e mi lasci finire di parlare forse riesco a dirtelo!”
    Alicia rimase un po’ scossa. Poi disse: “Ok… scusa. Ma non agitarti, se no è peggio.”
    Arcadia tirò un lungo respiro. “Quello che volevo dirti è… che dobbiamo restare vicini. Vuoi sapere perché, immagino. Non ci vuole molto a capirlo: quanti vedono ciò che vediamo noi? Nessuno. Quanti sono stati coinvolti? Nessuno a parte noi. Solo noi possiamo cercare di trovare una soluzione a tutto questo macello, ma possiamo farlo solo collaborando.”
    “Ma lo so… però il problema è… da dove partiamo?”
    “Sto cercando di pensarci anche io…”
    “Arcadia… io ho paura.”
    Egli la fissò, di colpo il suo tono di voce era diventato nervoso. Si guardava intorno, spaventata.
    “Sono qui per questo. Per aiutarti a non averne. E se tu aiuterai me, non ci potrà succedere nulla.”
    La ragazza si mostrò molto sollevata, e sorrise. Arcadia voleva aggiungere altro, ma con la coda dell’occhio scorse una figura in lontananza nel cielo. Era completamente nera, ed era impossibile distinguerne l’identità.
    “Cosa diamine…?” gli sfuggì, cosa che spinse Alicia a voltarsi. Pochi attimi dopo, dalla figura partirono saette azzurre, e raggi dello stesso colore piovvero in ogni direzione, spaccando vetri e sbriciolando l’asfalto. Un raggio più grosso e più veloce degli altri puntò in direzione di Alicia, e la prese in pieno petto, scaraventando la ragazza sul muro che le stava dietro.
    “Alicia!! No!!” Arcadia si voltò di scatto, e con un urlo corse verso di lei, cercando di soccorrerla. La ragazza era ferita in modo grave, e l'urto col muro le aveva causato ulteriori danni. Cercò di tamponare la ferita che perdeva molto, ma i risultati furono assai scarsi, anche perché non riusciva a organizzarsi per via della disperazione.
    “Non può succedere… NON PUO’ SUCCEDERE!!” Il pensiero dell’orrenda visione che aveva avuto nel liceo gli tornò in mente più prepotente e doloroso che mai. “Avevo appena detto… non succederà nulla… io non… NON PUO’ ESSERE!!” Si ricordò della figura nera, e rivolse lo sguardo ad essa, stringendo i pugni mentre si rialzava. “CHI SEI???”
    Solo in quel momento quell’essere si avvicinò, rivelando la sua identità ad un Arcadia senza più controllo, alla rabbia del quale si aggiunse ora incredulità, sia per quanto stava avvenendo, sia per quest’ultima rivelazione.
     
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